Take Shelter

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Curtis LaForche (Micheal Shannon) è un bravo padre – adorabile nella semplicità con cui ama la sua bambina – e un tenero marito che, fin dalle prime inquadrature, entra ed esce dalla porta di casa quasi sfiorando lo stipite superiore, riempiendo, come un gigante buono, le inquadrature di un’atmosfera familiare e accogliente. Ci fa sentire protetti, questo padre che, in uno scenario alla Norman Rockwell, dalla casa passa alla cava in cui lavora con impegno allo scopo di portare la famiglia in vacanza e di provvedere alle cure per la figlia, in attesa di poter ricevere l’impianto cocleare. Quello che Jeff Nichols ci mette di fronte è un personaggio estremamente sincero, che guardiamo con affetto dall’inizio alla fine, con compassione, con comprensione. Anche quando tutto cambia, quando quella figura così protettiva e stabile inizia a vacillare e porta via con sé le aspettative prima e ogni più piccola certezza poi.

Un vivido incubo è il primo gradino di quelle che sarà una discesa verso gli abissi della propria psiche per Curtis, il quale nei sogni inizia a essere perseguitato da un persistente senso di pericolo che, a poco a poco, diventa invalidante. Quello che il film trasmette con efficacia è la battaglia tra la ragione e l’istinto più forte che si possa immaginare: l’istinto di sopravvivenza per sé e per la propria famiglia. Anche se Curtis individua la probabile causa delle sue angosce nella schizofrenia paranoide, eredità da parte di madre, non può fare a meno di essere dominato dal terrore, così potente da spingerlo a dissipare i risparmi e a rovinare le proprie amicizie nel disperato tentativo di salvare la sua famiglia dallo spaventoso monito che sembra perseguitarlo nei sogni e che assume la forma di una tempesta di proporzioni catastrofiche.

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Jeff Nichols ci accompagna, attraverso dei primi piani introspettivi, dei ritratti decentrati e materici, a fianco del protagonista. Noi lo vediamo impazzire, disperarsi, agitarsi senza darsi pace se non quando è impegnato a costruire il rifugio anti-tornado, a riempire il carrello della spesa di lattine di zuppa Campbell, che sembrano essere l’ultimo legame con quello scenario alla Norman Rockwell con cui all’inizio siamo stati accolti, l’ultima debole connessione con lo stereotipo della famiglia perfetta, di quell’America perbene casa, lavoro e chiesa irrimediabilmente destinata a scoppiare. Ed è proprio ciò che avviene nel contesto della cena di beneficenza organizzata dalla chiesa locale, dove, a causa di una provocazione causata dall’ottuso risentimento di chi non ha tutta la compassione che vorrebbe mostrare agli altri, Curtis lascia cadere le barriere di sanità mentale che aveva, fino ad allora, faticosamente mantenuto in piedi. Proprio in questo momento, però, è la verità a vincere sull’apparenza: nella disperazione più profonda la famiglia si stringe attorno a chi soffre, abbandonando la preoccupazione dovuta a ciò che gli altri potrebbero pensare.

Quello che si respira, nel corso del film, però, è anche un’inspiegabile paura. Il senso di impotenza e di smarrimento coinvolge anche lo spettatore, messo alle corde dalle minacciose visioni che nel sonno e nella veglia perseguitano il protagonista. Il volo caotico degli uccelli, i tuoni, il cielo plumbeo. Moniti terribili ai quali, nel corso delle due ore, ci abituiamo, proprio come tenta di fare Curtis, conscio del fatto che tali incubi non sono altro che il prodotto della propria psiche. Perché tutti ne sono convinti. Tutti sanno che Curtis ha qualcosa che non va, che gli sta succedendo qualcosa di strano, che sta rovinando la propria vita e quella della sua famiglia per dei deliri, delle allucinazioni, conseguenza quasi necessaria della malattia che già aveva afflitto la madre. La sua diagnosi nei propri confronti è così credibile da assumere la connotazione di un fatto inevitabile. È questo che, alla fine, ci porta, assieme a Curtis, a non poter credere ai nostri occhi: una terribile tempesta occupa velocemente la vista dei personaggi proprio mentre sono al mare, proprio quando Curtis si è finalmente convinto a lasciare il rifugio anti-tornado nel tentativo di riprendersi la propria vita. Alla fine tutto trema, anche la certezza, lentamente costruita nel corso del film, della totale e pervasiva follia di Curtis. Il tornado che vediamo apparire all’orizzonte è distruttivo anche nei confronti dell’idea che si era ormai consolidata, della triste rassegnazione e della compassione suscitata da un animo così sofferente e difficile da aiutare. Quasi non sono riuscita a uscire dalla sala, sarei voluta restare aggrappata a questo modo di essere sorpresa, spaventata e incuriosita allo stesso tempo. Ci sono rimasta così aggrappata da aver temuto di scriverne per molti mesi, spaventata all’idea di poter rovinare con le parole – spesso insignificante di fronte alle emozioni – un’opera così meravigliosa. L’infinita bellezza di questo film risiede anche nella sua ambiguità e non mi stupisce il fatto che il nostro cervello sia biologicamente portato a cercare di sbrogliare la meravigliosa matassa che in essa risiede – soprattutto quando si tratta di arte -, proprio perché non esiste modo di risolverla. Uscendo dal cinema mi sono portata a lungo questo film dentro e tutt’ora non faccio che pensare: forse siamo così abituati a dubitare di noi stessi e delle persone che amiamo da trovare terribilmente più semplice escludere ogni altra spiegazione alternativa alla fragilità dell’animo umano.