Hereditary

Oggi ho un po’ di quella strana cosa che ti sembra di essere trascinato in giro per lo sterno, a metà tra la mancanza di controllo della propria vita (in questo caso, della propria giornata) e la vacuità totale. Mi sento come un vasetto che sa già che se cadrà andrà in frantumi, e mi aggiro circospetta per i corridoi, le scale, e anche per i miei pensieri. E ho pensato che questo fosse il mood migliore per affrontare la recensione di Hereditary, nonché il mio ritorno al blog.

AH, GIUSTO: QUESTA è UNA RECENSIONE PENSATA PER: A) CHI HA VISTO HEREDITARY; B) CHI LO VUOLE VEDERE E VUOLE TORNARE QUI DOPO AVERLO VISTO (ALTRIMENTI NON PROSEGUITE); C) CHI NE è INCURIOSITO MA NON LO VEDRA’ MAI E NON TEME SPOILER. –

Perché Hereditary (ah, comunque, prodotto dalla A24, che sta facendo cose assai belle) è un film che parla di persone che perdono il controllo sulla propria vita, che devono aggirarsi circospette, che – SPOILER!!! – diventano vacui e, sì, fanno una pessima fine.

Devo precisare che questo post non sarebbe stato possibile senza la conversazione avuta con i miei co-spettatori all’uscita dal cinema. A cena. Prima di andare a dormire. Il giorno dopo. La settimana successiva.

Allora, un po’ in ritardo, ma eccoci. Hereditary è sovrabbondante, fleshy, materico, è un film che vive di movimenti di macchina. Però prende una rincorsa lunga e tesissima, faticosa e sofferta e poi si lancia giù dal dirupo della pazzia totale senza compromessi. Fa assolutamente quello che vuole (come il Maestro Haneke, il Maestro David e pochi altri). La prima cosa che ho pensato, quando sono uscita, è che l’ultimo film horror che avevo visto che si era lanciato in modo assolutamente brutale e coraggioso fosse The house of the Devil, che assomiglia a Hereditary nel fatto di essere un film fatto di carne e di essere umani fisici, pesanti.

E di adoratori del demonio e dintorni.

La trama del film è semplice, a modo suo. O meglio, è incredibilmente intricata, ma studiata tanto bene che finisce per risultare piacevolmente fluida e scorrevole, a visione conclusa. Anzi, necessaria. Però non è banale. Anzi, devo dire che il film gestisce benissimo il minutaggio di due ore abbonanti, essendo uno slow burner con degli scoppi di motore qui e là.

Il film inizia con un close up su una casa della bambole, che poi diventa la casa in cui tutto si svolge. Il close up ci sta parlando e ci sta dicendo: qualcosa di più grande incombe su questa casa. Da qui in poi è tutto un susseguirsi di eventi e forze che si abbattono sui personaggi del film senza che loro possano fare nulla. Sono manovrati e deprivati della loro forza, incapaci di gestire mente e corpo. Quello che trovo straordinario è che, sebbene il film in modo simbolico tratti della malattia mentale, del lutto, dell’incomunicabilità all’interno del nucleo famigliare, ciò che manovra tutto non è una metafora, è un demone (e i suoi simpatici discepoli/adepti). Punto. Non si può guardare questo film e non accettare l’esistenza materica e pesante del male, che ha non un corpo, ne ha molti, ma che può agire e dare fuoco e decapitare. Questo è un punto su cui tornerò dopo.

Il film inizia con un rito: un funerale. Il funerale di Ellen, la madre di Annie (Toni Collette). Il film inizia anche con un dramma familiare: Annie che legge l’elogio funebre per sua madre, da cui trasuda il disagio, la mancanza di familiarità, nonostante la vicinanza fisica, tra Annie e Ellen. Sappiamo subito che qualcosa non va, perché nessuno sembra davvero soffrire per questa perdita, e nessuno sembra sapere come dovrebbe reagire. Peter, il figlio maggiore di Annie, non sembra turbato. Charlie, sua sorella, chiede alla madre chi si prenderà cura di lei, una volta che Annie sarà morta. E poi riprende a fissare il vuoto, come se stesse cercando di capire le cose, guardandoci anche dentro, ma senza comprendere.

Un pochino confusa

Un pochino confusa

Charlie appare, da subito, una ragazzina strana. Siamo in un film horror e al minuto 15 mi aspetto che Charlie dia fuoco alla casa con il solo sguardo. Però Ari Aster non vuole darmi quello che mi aspetto – per fortuna -, e Ari Aster (scusate ma adoro sto nome) ha deciso di sconvolgere il suo pubblico con le sue regole, e la soluzione migliore è lasciarsi guidare nell’abisso che ha preparato.

Dopo il funerale la storia procede ma non procede, c’è un sentore continuo e pesante di follia, di disagio, di malessere e di Male Occulto, ci sono scritte misteriose nascoste nella tappezzeria dei muri, simboli che ritornano, libri sull’occultismo, c’è Annie che a un gruppo di terapia per il lutto racconta una storia familiare di sofferenza e morte, racconta che la madre era schizofrenica e che suo fratello è morto proprio a causa del fatto che la madre “tentava di mettere delle persone dentro di lui”, perché era malata e non sapeva cosa stava facendo e che, a causa di questi eventi, le aveva tenuto nascosta la nascita di Peter, il primo figlio, perché non voleva che lei interferisse con la sua vita, e solo negli ultimi anni, con la nascita della seconda figlia, le si era riavvicinata, tollerando le bizzarre attenzioni che la nonna aveva nei confronti della bambina – tipo tentare di allattarla (già, che ansia).

Un momento un po così

Un momento un po così

Il film, fino a questo, punto, costruisce con pazienza e attenzione una tensione che diventa intollerabile. E poi Charlie muore in un orribile incidente per cui Peter si sente così responsabile da diventare una sorta di ombra liquida, capace solo di fumare e strisciare nel letto, cercando di coesistere con una madre che non vuole ritenerlo responsabile ma che lo fa, e un padre comprensivo e adeguato che fatica a mantenere tutto in equilibrio. E noi lo sentiamo. Perché abbiamo aspettato che qualcosa succedesse e ora, questo nuovo lutto, la mancanza di comunicazione, l’elaborazione patologica del lutto da parte di Annie, che tenta di superarlo rimettendo in scena l’accaduto ricostruendo fisicamente la scena della morte della figlia, e tutto è sempre più pesante e ti costringe al silenzio e all’attesa che qualcosa di ancora più violento si scateni.

 E infatti i lutti sono solo un preludio. Quando Annie, tornando al gruppo di sostegno per i lutti, conosce una simpatica signora che le offre il suo aiuto emotivo e, nel giro di poco, una seduta spiritica, Annie, dapprima terrorizzata – chi non lo sarebbe – e incredula – ha la reazione razionalizzante che tutti avremmo – si lascia coinvolgere. Perché le manca sua figlia, perché non pensa davvero che funzionerà finché non lo vede accadere, perché vuole stare meglio. Ovviamente le cose vanno da Ghost a Pet Semetery nel giro di dieci minuti, con presagi di morte che incombono su Peter, che inizia a stare sempre peggio e a essere fisicamente manovrato da forze esterne in una delle migliori scene horror sovrananturali che abbia mai visto.

Lui non voleva sorridere ma il Male Occulto sì

Lui non voleva sorridere ma il Male Occulto sì

Da qui in poi è un susseguirsi di sofferenza, malessere, camminare sulla sottile linea tra malattia mentale e occulto, un peggiorare lisergico ininterrompibile. Lo spettatore sa che è inevitabile che tutto scivoli nel buio, ma non è in grado di immaginare quanto l’abisso sia profondo. Assistiamo a Toni Collette/Annie volanti e appese negli angoli in quella penombra per cui passi alcuni secondi a chiederti se è la tua immaginazione o meno – proprio come succederebbe nella realtà -, a Gabriel Byrne (il padre) che prende fuoco e muore tra le nostre braccia, a un cadavere decapitato in soffitta (la nonna) e simbolacci spaventosi di sangue, a Toni Collette/Annie/Nuova Adepta che cerca di SFONDARE CON LA TESTA la botola per la mansarda per uccidere suo figlio e suddetto figlio che muore per lasciare che lo spirito di Charlie, che era sempre stata in realtà il Male Occulto – ecco perché non capiva niente di quello che le accadeva attorno, lei era il dimonio – , lo possegga per poter ascendere (fisicamente) nella casa sull’albero tutta illuminata di rosso per essere adorato dai suoi adepti ignudi spaventosi (tra cui la nonna senza testa!).

Esatto. Proprio così. Ari Aster prepara tutte le premesse con una precisione e una cura tale per cui può permettersi di lanciare un grosso sasso pesante sull’acceleratore e lasciar fare alla macchina il cazzo che vuole. Ed è favoloso.

 PS – Incredibile il potere del Cinema, ora sto un po’ più su di balla.