Confessions

Ognuno custodisce dei segreti, ognuno di noi ha qualcosa da confessare e non è necessario che sia qualcosa di grosso, di terribile. Quante volte il peso di qualcosa che avremmo voluto dire ci ha schiacciati all’inverosimile? I personaggi di Confessions costituiscono una microsocietà in cui il segreto, l’insicurezza, il peccato sono portati all’estremo in un condensato di colpa, crudeltà e disagio. Inutile dire che, fin dalle prime inquadrature dalle tinte cupe e slavate, l’atmosfera si è fatta inquietante.

confessions_3Ritratti di bambini al ralenti che bevono il latte con la cannuccia mentre una musica infantile sostituisce i rumori intradiegetici. Mi sono detta: qui c’è qualcosa che non va, finirà malissimo. Non so, era una sensazione, non come quella che hai all’inizio di Funny Games, quando parte la musica di John Zorn e la vaga impressione di angoscia che aleggiava fino dalle prime inquadrature diventa una certezza. No, in Confessions era proprio l’incognita a farmi paura, aggravata da una soffocante inquadratura dall’alto – che non promette mai niente di buono. È uno di quei film che mi hanno fatto pensare di guardarmi le spalle nel buio della – semideserta, tanto per cambiare – sala.

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Per me, che non avevo letto alcuna sinossi – e ne ho ben donde: quanti film terrificanti mi sono ritrovata a guardare perché mi sono fidata della sinossi, uno su tutti Mes seances de lutte, santo cielo -, il film sarebbe stato una sorpresa totale, ma, anche a conoscere la trama, Confessions è fatto da tante sfaccettature, da tante microstorie che si incastrano perfettamente all’interno di un grande, terribile disegno. L’incipit, sebbene l’atmosfera promettesse già aria di tragedia, mi ha fatto pensare a un film a tema scolastico e, dopo Monsieur Lazahr, Detachment e Nella Casa, sono decisamente affascinata dal genere. Un’insegnante che sta per dimettersi, una classe di alunni indisciplinati, superficiali, vuoti, carnalmente connessi con i loro cellulari, allo stesso tempo troppo bambini e troppo adulti. Un discorso d’addio, con citazioni di un professore illuminato, allo scopo di lasciare il segno in degli adolescenti che sembrano deridere perennemente tutto ciò che è profondo, o reale. Un discorso d’addio che parla della vita e che, presto, si trasforma in un tragico racconto di morte: l’insegnante, tale signora Moriguchi, racconta della figlia Manami di quattro anni, trovata morta nella piscina della scuola. La bambina è stata vittima di un omicidio e l’insegnante sa chi è stato.

Ecco il primo colpo. Il cuore si ferma come ogni volta che la signora Moriguchi raccoglie i quaderni nelle mani e li riassesta con un colpo in verticale sulla scrivania, gesto che compie all’inizio e alla fine del suo racconto, come a scandire una parentesi di sincerità che, presto, tornerà a essere offuscata dalla superficialità delle convenzioni. Un suono così sottile, tipicamente innocuo tanto da passare inosservato, toglie il respiro. Così come la voce della donna, che a tratti si integra perfettamente con i suoni e, soprattutto, i rumori della classe e, all’improvviso, sembra provenire dall’esterno, alla stregua di una colonna sonora. Come se fosse qualcosa d’altro, un monito, una presenza che è lì, ma è anche altrove.

Con dei flashback che fanno apparire il periodo in cui la bambina era viva come molto più lontano di quanto effettivamente non fosse, il regista ci porta in un passato che sembra, appunto, remoto, proprio in quanto, ormai, irrecuperabile. I momenti con Manami sembrano ancora più irraggiungibili tinti di colori pastello che, in tutto il film, non rivedremo più, sostituiti dalle tinte cupe e slavate che fanno da sfondo alla storia.

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Il montaggio alternato ci mostra un ragazzo che, con un pretesto, viene attirato sul tetto e viene picchiato, mentre l’insegnante conduce come per mano gli studenti verso la soluzione, verso i colpevoli, lo studente A e lo studente B. Il primo, Shuya Watanabe, con un ottimo rendimento scolastico e una grande ambizione, il secondo, Naoki Shimomura, apparentemente privo di talenti e desideroso di essere notato e considerato. Il primo aveva elaborato un crudele sistema per uccidere, il secondo aveva scelto la vittima.

I ragazzi non possono essere processati, perché minorenni e l’insegnante afferma di non voler informare la polizia della verità, non farebbe alcuna differenza, non potrebbe riportarli sulla retta via, in modo che possano dare un valore alla loro vita, perciò decide di agire diversamente e rivela ai ragazzi che nei loro cartoni del latte ha iniettato il sangue infetto dall’HIV del padre di Manami, un illuminato insegnante ormai condannato a morte dalla malattia. Il regista, con un’estetica precisa e paralizzante, ci mostra il rosso del sangue fondersi, fluttuando con morbidezza, con il bianco del latte.

Sono già rapita. Agganciata. Anche spaventata. Per citare un altro stupendo film rivisto di recente, «l’odio chiama l’odio» (Hubert, in La haine) mi dico. Per quanto una vendetta sembri decisamente ciò che i ragazzi si meritano, non posso crederci.

Non appena la signora Moriguchi termina la lezione lascia l’aula, così come gli studenti della IIIB, che riprendono le loro vite come se nulla fosse, ridacchiando, saltellando, pensando a sé stessi e nient’altro. Inquietante il dettaglio delle ragazzine che saltellano nelle pozzanghere fangose a rallentatore: il gioco non è più gioco, ma diventa qualcosa di torbido. Questo concetto è espresso in modo visivamente schiacciante anche con delle inquadrature riflesse in uno specchio distorto: ogni volta che qualcosa di terribile sta per accadere, lo specchio, subito prima, ci mostra una scena di vita serena e normale.

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Il giorno dopo, a sostituire l’insegnante, un giovane il cui sogno è ispirare i ragazzi, essere per loro un amico, un confidente, un fratello maggiore. E si fa chiamare Werther (povero Goethe). La sua figura è da subito sbeffeggiata da una dei ragazzi, Mizuki, incredula di fronte alla superficialità dei compagni e all’ingenuità del nuovo docente. Mizuki diviene testimone di una spirale d’odio che si genera nei confronti di Shuya, protagonista di atti di bullismo da parte di tutta la classe che più che aver maturato una distorta vendetta sulla base di una sorta di coscienza collettiva, prendono parte a un gioco a punti il cui scopo è rendere la vita dell’assassino impossibile. L’unica a non ripercuotersi su Shuya è Mizuki, la quale, per questo motivo, diviene una vittima a sua volta. La vendetta della classe non soddisfa e non è nemmeno comprensibile, perché diviene solo una scusa per dare sfogo alla propria malignità, piuttosto che soddisfare un frustrato desiderio di giustizia. Quello che il regista ci mostra, in questa sequenza, è un gioco al rialzo della brutalità.

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Ma ogni azione ha delle conseguenze e, ancora una volta, il bullismo subito spinge Mizuki vicino a Shuya. Questi, nel frattempo, scopre una cosa che Mizuki ha sempre creduto di sapere: non è infetto. La professoressa Moriguchi non ha realmente avvelenato il latte.

I corpi dei ragazzi gettati a terra dai compagni presagiscono la loro successiva unione: in quello che è uno yin e yang umano il regista sembra dirci che nel male c’è sempre del bene. Ma, più il film scorre, più sembra volerci soprattutto ricordare che nel bene c’è sempre del male. Mizuki e Shuya diventano inseparabili e questo contatto emotivo così inaspettato ci rivela il personaggio per ciò che è, una ragazzina tormentata e disturbata, convinta di essere l’anima gemella della tredicenne che, un anno prima, aveva sterminato la famiglia avvelenandola. I due diventano inseparabili e le immagini che li ritraggono assieme, come una normale coppia di ragazzini sono agghiaccianti e culminano nella domanda di Shuya: «C’è qualcuno che vorresti uccidere?» a cui Mizuki risponde con un sorriso.

E, di nuovo, mi si ferma il respiro.

Il film è una spirale discendente di dolore e di angoscia. E questa sensazione non fa che aumentare quando il regista ci mostra, attraverso le assillanti visite di Werter a casa di Naoki, le terribili condizioni in cui il ragazzino è sprofondato. L’orrore di fronte all’idea della morte a causa del contagio lo ha reso ossessivo compulsivo, terrorizzato all’idea di contagiare la madre e, allo stesso tempo, così sconvolto all’idea di morire a soli tredici anni da non prendersi più cura di sé per non doversi confrontare con la realtà. La madre di Naoki è iperprotettiva, cieca di fronte al crimine che il figlio ha commesso, perennemente convinta della perfezione della sua creatura.

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Ma tutto questo crolla quando Naoki le confessa che, mentre stavo buttando la bimba in piscina credendo che fosse morta, questa aveva aperto gli occhi e, dopo essersi rasserenato per un momento, decise di ucciderla per dimostrare a Shuya di essere riuscito a fare ciò di cui lui non era stato capace. La madre di Naoki è una di quelle persone che, non avendo il senso della misura, non sanno affrontare il problema: il mio bambino non è perfetto, io ho fallito, allora non mi resta che ucciderlo e morire con lui. Terrificante è scoprire che Naoki avrebbe voluto morire, ma, mentre la madre piangeva per averlo accoltellato, di nuovo sente la voce derisoria di Shuya nella sua testa e, non potendo rispondere a lui, infierisce sul corpo della madre che, ancora una volta, lascia che il figlio prenda il sopravvento.

Shuya. Un ragazzino psicopatico che vuole attrarre l’attenzione, dapprima con la sua notevole intelligenza, l’unico lascito di una madre che l’ha abbandonato per dedicarsi a una carriera accademica. Un abbandono terribile e straziante, che la donna aveva tentato di smorzare dicendo al figlio che lui aveva il suo sangue, che sarebbe diventato intelligente come lei, un genio. E Shuya cresce pensandosi migliore degli altri, definendo il padre – che, per quel poco che lo vediamo appare come una persona semplice e amorevole – un idiota, impegnandosi a fondo per essere notato dalla madre, per renderla orgogliosa. Una volta che le sue aspettative vengono disattese, però, inizia a torturare animali, a meditare vendetta contro lo stupido mondo che nulla può comprendere, confronto a lui. Ciò che fa male, nel vedere e sentire la confessione di Shuya, trasformatosi in un mostro, è la sofferenza e la speranza che sottendono la sua crudeltà. L’idea che lì, nascosta da qualche parte, ci sia ancora un’anima pronta ad amare – la madre – è raggelante, perché ci mette in conflitto, contesi tra pietà e indignazione.

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Gli ultimi minuti del film sono laceranti, soffocanti, opprimenti. Shuya prende in giro Naoki, amareggiato perché gli ha rubato l’attenzione, ancora una volta. Un commento sulla “amata mammina”di Naoki e Mizuki ribatte, dicendo: senti chi parla. Il morboso attaccamento di Shuya per la madre emerge con una potenza tale da spaventare Mizuki che, però, ha ripone tanto affetto e fiducia in Shuya da non immaginare ciò che sta per succedere. Shuya la uccide e la fa a pezzi e, nel farlo, racconta di quando era piccolo e faceva a pezzi i suoi giochi per vedere come sono fatti dentro. Se prima era una sensazione, ora lo sappiamo: tutti, all’infuori di sua madre, sono, per Shuya, dei giochi, delle pedine, dei modi per passare il tempo. E la madre si salva da questa carneficina affettiva solo perché altro non è che un’idea, un’immagine lontana e idealizzata, dissoltasi molti anni prima in mezzo a una scia di bolle di sapone.

Una bomba. Con una bomba non potranno non notarmi, pensa Shuyha che ha guadagnato il diritto di tenere un discorso davanti a tutta la sua scuola grazie a un tema da lui scritto. Un tema che parlava della vita. Shuya prova il discorso, prova la postazione ideale per la bomba, si prepara il numero del cellulare che fa da timer tra le chiamate rapide e registra – e carica – un videomessaggio sul suo blog, in cui racconta ciò che ha intenzione di fare. La superbia di Shuya e il suo bisogno di attenzione fanno in modo che qualcuno senta il suo messaggio e ribalti la situazione.

Il giorno dopo, a scuola, nessuna bomba scoppia: l’ipocrisia di Shuya dopo aver inneggiato alla vita resta paralizzata nel vuoto, un vuoto diverso da quello sperato dal ragazzo, che immaginava i corpi dei compagni sparsi sul pavimento della palestra. Un vuoto che ha il suono degli applausi dei compagni e di un telefono che squilla: la professoressa Moriguchi ha, finalmente, attuato la sua vendetta. Racconta a Shuya di aver spostato la bomba nel laboratorio della madre: avrebbe tanto sperato che cambiasse idea.

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La reazione di Shuya è esplosiva, il suo dolore le sue grida sono rumorose come il fragore di una bomba e il registra ci mostra la disperazione del ragazzo con un’inquadratura dall’alto. Doloroso è il percorso che Shuya fa a ritroso, come le lancette dell’orologio da lui modificato per andare all’indietro: immagina l’esplosione, le componenti della bomba tornare al loro posto, la madre ascoltare la storia del figlio attraverso le parole dell’insegnante e Shuya continua a immaginare, fino ad arrivare al giorno in cui la madre l’ha abbandonato, per tornare al momento in cui tutto si è spezzato ed è scoppiato per la prima, fatale volta.

E, proprio mentre Shuya soffre rumorosamente, la professoressa Moriguchi lo raggiunge e, nel vedere le sue lacrime, gli dice «la tua rinascita inizia in questo momento. Scherzavo», lasciandoci nel dubbio: avrà voluto dare al ragazzo una lezione di vita nella speranza di salvarlo da sé stesso (come aveva fatto fingendo di aver infettato il latte) o avrà messo in atto la sua vendetta?

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Confessions è un climax ascendente di paura, rabbia, risentimento e dolore. Tetsuya Nakashima ci proietta in un mondo in cui ogni singola parola ha un peso e ha il potere di schiacciare e di distruggere. Una consapevolezza spaventosa emerge da queste immagini: non abbiamo idea di cosa stia succedendo nella testa della persona che abbiamo di fronte e, per questo, è meglio tacere, piuttosto che dire qualcosa di crudele. Il regista ci mostra una realtà crudele e inquietante, in cui le forme di vita più belle e innocenti sono a rischio e non sempre il pericolo è costituito da qualcuno di forte e prepotente: a volte sono proprio i più fragili a essere i più pericolosi, perché, tentando di riacquistare il controllo sulla propria vita, rischiano di distruggere qualcosa di prezioso.

 

 

 

 

 

 

6 pensieri su “Confessions

  1. il caso ha voluto che quando ho iniziato la visione di questo film, fuori piovesse….

    i primi 30 minuti sarebbero stati sufficienti per farmelo etichettare come Capolavoro.

    tutto ciò che avviene dopo, e sopratutto gli ultimi 10 minuti, mi lasciano l’amaro in bocca perché film come questo escono e non vengono né dovutamente pubblicizzati né adeguatamente programmati.

    tutto il meglio e il peggio che l’umanità è in grado di creare è racchiuso in questo film.

    e il finale, quell’ultima parola aggiunta, ti fa venir voglia di uscire e correre fino a quando non ne hai più.

    Bellissimo. struggente, indimenticabile.

    Lo sto consigliando a chiunque, e spero che chiunque lo guardi.

    • Molto bello Confessions, forse l’unico difetto e` quello di essere un film molto occidentale a modo suo (questo difetto non l’avevo notato, mi e` stato suggerito ed effettivamente ci sta), nel senso che il film incarna un po` l’immaginario di quel tipo di Giappone. Detto cio`, probabilmente funziona benissimo anche per questo e, soprattutto, e` un film molto forte. Di recente ho visto Battle Royale, sempre con ragazzini come protagonisti ma in un contesto ben diverso, ma te lo straconsiglio!

  2. 1 chiedo venia per l’immensa mole di commenti, ma ormai che ero qui mi son girato tutto il blog e ho commentato dove conoscevo 😀

    2 la cosa più sconvolgente di tutte è che noi simpatizziamo per un adulto che se la prende con dei bambini (profondamente malvagi dentro) e infondo siamo felici che lei riesca (forse) nella sua vendetta personale, tutto in un climax di tutte le peggiori emozioni che l’uomo umano può provare

    • 1- sono solo felice di trovare commenti e attendo con ansia di avere una connessione sensata per rispondere prima ed esplorare altri blog 🙂
      2- è ancora più disturbante proprio per questo. Fa davvero paura se ci si pensa hai ragionissima

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