Solo Dio Perdona

Nicholas Winding Refn ci è riuscito ancora. Questa volta, però, non solo ha realizzato un film formalmente e stilisticamente magnifico, questa volta mi ha incantata.

Refn ha costruito un mondo a parte, in cui le atmosfere suggestive create dagli sfondi geometrici rendono i movimenti dei personaggi estremamente armoniosi e fluidi in quella che mi è parsa una sofferente e disturbante danza di sguardi. La fotografia è magnifica, materica e vengono alternate immagini evocative e contemplative, decontestualizzate ed eterne a frammenti di realtà che ricordano le foto di Robert Capa e di Steve McCurry in cui i personaggi si trovano spesso a stare sul bordo di soglie che si frappongono tra un ambiente e l’altro.

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Julian (Ryan Gosling, che, diciamolo, sta scegliendo ruoli che definire impegnativi sarebbe un pallido eufemismo) ha aperto, in Thailandia, una palestra di Muai Thai con il fratello Billy. L’attività dei due altro non è che una copertura per il traffico di droga, ma, tutto questo, non costituisce altro che un abbozzo di trama che nulla ha a che vedere con il sottotesto di tutto il film, in cui è l’intrapsichico a prevalere.

Le attività malavitose dei fratelli sono uno sfondo consono alla filmografia di Refn, che utilizza realtà microcriminali per far uscire tutta l’umanità dei suoi personaggi. O la disumanità, come nel caso di Billy (Tom Burke), il fratello maggiore che, da subito, si impone come una figura contorta e crudele, guidata dalla violenza e dal controllo. Il suo personaggio, seppure abbozzato e dalla breve vita filmica, è da subito profondo e molto intenso, è protagonista pur apparendo solo per pochi minuti. Billy manifesta questa necessità di controllo nel modo più perverso immaginabile: distruggendo la vita e il corpo di una ragazza minorenne e, per questo, verrà immediatamente ucciso dal padre della vittima. Quello che stona, però, è che sia stato un poliziotto (Chang, interpretato da uno ieratico Vithaya Pansringarm) a spingere il padre a vendicarsi, permettendogli di uccidere Billy e mutilando l’uomo per non aver protetto la sua famiglia. E, dopo una vendetta, un’altra deve essere consumata: Julian deve vendicare Billy.

Fin qui, di violenza non ne vediamo. Sappiamo che c’è stata, vediamo le sue conseguenze, ma non vediamo l’atto nel suo dispiegarsi. La furia omicida si propaga come un’onda d’urto non appena la madre di Julian arriva in Tailandia e chiede vendetta, una vendetta che il figlio minore non è riuscito a soddisfare: dopo aver scoperto ciò che Billy aveva fatto, non aveva senso uccidere l’uomo cui era stata strappata la figlia.

Con la sgradevolezza immediata del personaggio di Kristin Scott Thomas, si innescano una serie di ripercussioni in cui l’eccesso di violenza è testimoniato dalle vivide immagini che Refn non nasconde, anzi, espone come se fossero oggetti in vetrina, un po’ come nella sequenza in cui viene torturato l’uomo pagato per uccidere Chang (il poliziotto vendicatore), dove la ragazze sembrano bambole degli anni Cinquanta, che chiudono gli occhi a comando e sussultano a malapena sul sottofondo straziante delle grida dell’uomo. L’estetica di Solo Dio Perdona è fortissima ed è meravigliosa, di un bellezza brutale e avvolgente. È impossibile distogliere lo sguardo anche nei momenti più rudi e impressionanti, perché il regista ci trascina, attraverso un montaggio che funziona come una sinfonia, da una sequenza all’altra senza lasciarci battere ciglio. È tutto un fluire continuo di stati mentali.

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E uno stato mentale è il locale in cui il poliziotto canta di fronte a tutti i suoi sottoposti, sovrastato da un soffitto di lanterne rosse, circondato da lucine bianche, avvolto in una soffusa atmosfera blu. Sembra di essere dove non esiste un tempo, in un non-luogo che mi ha fatto pensare al locale in cui le protagoniste di Mullholland Drive si ritrovano (non si sa come) a sentire Rebekah del Rio che canta. No hay banda. E di Lynch c’è molto, in questo film. Non si tratta solo di puri richiami stilistici, di queste cornici e di quei sipari che interrompono la narrazione, ma che, in realtà, ne costituiscono il cuore pulsante. Anche il ruolo dato ad alcuni dei personaggi è funzionale al compito che devono svolgere, senza che vi sia un approfondimento psicologico. E questo è punto di estrema forza in una storia come questa, in cui il poliziotto giustiziere incarna la vendetta giusta, seppure distorta e brutale. Quello che tiene in piedi con forza questo personaggio non è il personaggio in sé, ma la sua funzione, quella di ripercuotersi sui colpevoli fino all’estremo. Oltre a questo non sappiamo nulla di lui. Come Rebakah del Rio che, mentre canta Jorando, cade a terra, inerte, mentre la musica continua: il significato è veicolato da un altro significante e, allo stesso modo, è il perseguimento della vendetta ad animare il corpo del poliziotto.

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Tre sono le sequenze che si svolgono in questo locale e che scandiscono dei momenti di fondamentale importanza: la prima volta, subito dopo che Billy è stato ucciso e il torto riparato, vediamo l’uomo cantare, i poliziotti ascoltarlo assorti e avvertiamo un senso di sospensione. La seconda volta, invece, ci troviamo nel mezzo della vendetta, quando l’escalation di violenza raggiunge uno dei punti più alti – dopo la scena di tortura – e la voce dell’uomo viene sovrastata da un rumore extradiegetico acuto e inquietante, un suono che crea una tappeto sonoro su cui si stagliano i volti dei personaggi, creando un’atmosfera di forte angoscia. La terza, invece, è quella del finale, dove in questa dimensione altra in cui ci troviamo, si è ristabilito l’equilibrio e prevale una strana, ma avvolgente armonia.

ryan-gosling-sfondoOgni personaggio, inoltre, ha una sua dimensione visiva molto forte e importante: la figura di Julian si staglia su scenografie geometriche, ai limiti dell’optical che, giustapposte ai movimenti di macchina, confondono lo spettatore fino a far provare l’illusione che le pareti si muovano. Questo ambiente che Refn crea per il protagonista aumenta il grado di disagio che proviamo assieme al personaggio, un uomo disturbato e sofferente, angosciato da un desiderio di autopunizione che riusciamo a comprendere non appena sua madre entra, rumorosamente, in scena.

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Come una barbie Crudelia, infatti, Crystal viene accompagnata in una stanza d’albergo estremamente lussuosa, contesto visivo che verrà per la maggior parte del film associato al personaggio. Si tratta, però, di un lusso degli ambienti contrapposto al suo abbigliamento che è, sì, costoso, ma dall’aspetto cheap e volgare, sovrabbondante e visivamente chiassoso. Una madre che sfiora la pelle del figlio come fosse un’amante, che lo tratta come un fallimento e come un servo e che, da subito, mette a disagio lo spettatore per il rapporto ambivalente che ha nei confronti del ragazzo. La scena in cui questo contatto appena accennato, ma fortemente disturbante, avviene ha, però, luogo nel labirinto di Julian, in quelle stanze e corridoi illuminati di rosso e sovraccarichi di disegni orientali. Ancora una volta, siamo nella testa di Julian, viviamo la sua confusione e la sua sofferenza.

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Il personaggio di Chang viene, invece, spesso associato ad ambienti semplici, popolari, dai colori pastello (come nel ristorante, poco prima di essere aggredito da un assassino a pagamento o nella sua casa, dove regnano tinte verde pallido) o si impone su sfondi semplici, scuri, minimali.

Non c’è un vero personaggio positivo, la maggior parte delle persone che popolano questo film sono controverse e composite. L’unico personaggio fortemente negativo è quello della madre – e, per quel che ne sappiamo, anche quello di Billy, anche se possiamo solo immaginare quale tipo di rapporto abbia avuto con la genitrice durante la giovinezza. Gli eroi dei film di Refn non sono mai eroi puri, eroi nel vero senso della parola, ma sono sempre imbrattati dalle brutture della vita, invischiati nella tragedia, incastrati in un ruolo da cui non sanno come uscire.

specchio1 La profonda sofferenza di Julian colpisce nella sottile, ma intensa scena in cui si guarda allo specchio e immediatamente abbassa gli occhi, come se non riuscisse nemmeno a sostenere la vista di sé stesso. Il suo personaggio è tormentato, passa da momenti in cui è animato da tenerezza a veri e proprio scoppi di rabbia totalmente incongrui rispetto alla situazione.

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Un altro elemento fondamentale sono le mani di Julian, inquadrate più volte e in momenti particolarmente significativi: quando si lava le mani, dopo aver risparmiato la vita dell’assassino di Billy, immagina il sangue sgorgare dal lavandino e ogni volta che guarda Mai impedendosi di toccarla e di avvicinarla le sue mani che si contraggono hanno lo stesso valore di un pianto di dolore. Julian si fa del male in questo e altri modi: durante il combattimento finale contro il poliziotto, infatti, dopo essere stato colpito più volte, smette di attaccare finché non giace a terra svenuto, come se volesse essere annientato.

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Qui il suo volto diviene quello di un altro: Refn fa un lavoro molto forte sul corpo di Gosling (come ha già fatto nei film precedenti, soprattutto su Mads Mikkelsen in Valhalla Rising), fino a renderlo simile a un quadro di Francis Bacon – anche nei colori – multiforme e sofferente. Ma, soprattutto, le mani di Julian diventeranno cruciali di fronte al cadavere della madre, uccisa dal poliziotto con la katana. Julian squarcia il ventre della donna – squarcio profetizzato da una maglia con una rosa dall’aspetto simile a una ferita indossata da Kristin Scott Thomas poco dopo il suo arrivo – e vi affonda il braccio: in questa scena visivamente quasi insostenibile, il figlio ottiene l’unico contatto che era rimasto possibile con una donna che l’aveva sempre tenuto lontano, sebbene l’insistente e soffocante vicinanza fisica che gli imponeva.

E, per tutto il film, il sottotesto – estremamente complesso – che aleggia dietro al personaggio di Julian è quello di chi cerca la sofferenza per ottenere qualcosa che comprenderemo davvero solo nella – fortissima – scena finale: la purificazione. Solo tagliando quelle mani insanguinate Julian può uscire dal suo ruolo e dalla sua funzione e, paradossalmente, può essere una persona completa, proprio attraverso la mutilazione.