The house that Jack built

Lars von Trier per me è un po’ come il bel tenebroso del paese che ti fa soffrire e sai che non ti darà mai la stabilita ma è bellissimo e profondo e obscuro – ovviamente ridurre LvT a quello che è un bieco stereotipo, che se fosse umano avrebbe le stesse chance di sopravvivere di Barbie (non ci sta un apparato digerente completo li dentro), è male. Ma io mi sento come le ragazzine dei teen drama quando vedono Personaggio_X col capello lungo e la giacca di pelle che le ignora perché sta leggendo Baudelaire, come Alexandra Shipp in Tragedy Girls con quello che sembra James (Geimz per gli amici) di Twin Peaks quando parla di sentimenti, ma che se lei lo chiama, prima di capire che è lei e non Jenna, Julie, Pincopallina ecc ci mette mezz’ora. Ovvero: una parte di me vorrebbe che tu facessi sempre Le onde del destino, e tu invece mi schiaffeggi con Antichrist, mi inebetisci con Le cinque variazioni, mi piaci e mi dispiaci con Nymphomaniac(eh, dipende dai capitoli), mi capisci con Melancholiae mi sorprendi con The house that Jack Built.

 

Non mi aspetto che questo film piaccia a tutti, non avrebbe senso e non sarebbe giusto.  Sono però dell’idea che sia giusto che tutti ammettano che, anche se alla fine non ti piace, qualunque film di Lars von Trier ha qualcosa da dire. Non si può negare che sia uno dei pochi registi con una voce che è riconoscibile come sua e di nessun altro, e che ogni volta tenti di veicolare qualcosa all’infuori della storia. E su questa nota, più che in altri momenti, ho voglia di scrivere di questo film anche per via di ciò che è stato scritto da altri. Gente pagata per diffondere le sue idee sul cinema, qualificata cento volte più di me. Perfetto. A volte credo che ci sia uno strato di autoindulgenza così spesso per cui la critica (ovviamente non tutti, ma quella lagnosa e bigotta) non ritiene di doversi fermare a riflettere. ‘Ah questo film è solo provocazione’. ‘Questo film è non finalizza le sue idee’. ‘Le sequenze sono kitsch’. ‘il messaggio no è chiaro/è sbagliato’. A me hanno insegnato che il cinema non è solo la storia che le immagini e la sceneggiatura raccontano, ma ciò che le immagini, e il modo in cui vengono utilizzate, possono dire al di là di ciò che può essere espresso con le parole. E secondo me Lars von Trier questa cosa la sa fare, e la sa fare benissimo. E sa riempire dei vuoti che, nel cinema contemporaneo, ci sono. Che poi quello che ci fa con questa sua capacità possa essere più o meno piacevole, o condivisibile, è un altro discorso.  Io sono stanca di andare al cinema e vedere un “bel film” di cui mi dimentico dopo due giorni (della cui impressione, per essere precisa). Mi sta bene il cinema d’intrattenimento. Mi sta bene la sera quando sono stanca e quando non ho voglia di pensare. Ma lo storytelling dopo un po’ annoia. E a volte voglio essere sfidata, voglio che la mia intelligenza venga stimolata, messa in crisi, la mia morale questionata. Voglio essere spinta ad avere la necessità di farmi un’idea mia sul film e su ciò che ha da dire, e questo può accadere solo se il regista non ci serve un significato univoco, ma lascia margine di riflessione.  Altrimenti è un insulto all’intelligenza dello spettatore.

Oggi voglio tentare di essere sintetica ma di dare della ciccia su quello che penso del film, e lo farò a partire dalla prima parte del film, quella che racconta la ‘carriera’ di Jack come serial killer, attraverso cinque omicidi, ai suoi occhi particolarmente importanti.

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Ogni omicidio è titolato come ‘Incidente 1,2….5’. Jack vede i suoi omicidi come capolavori e si paragona a un artista, auto-denominandosi ‘Mr. Sophistication’, ma le morti sono tutt’altro che sofisticate: sono morti raffazzonate e maldestre. La prima cosa a cui ho pensato, per quanto riguarda il lato comico dell’incapacità di Jack, che si salva solo grazie ad artifiociosissimi colpi di fortuna (poi ci ritorno), è la sequenza iniziale di Mullholland drive, quella con il ‘killer pasticcione’, una sequenza che viene poi abortita li e non porterà a nulla – e non ci importa – , ma che è un tipico esempio di ricamare lynchiano sui dettagli. Per quanto riguarda il lato delirante, Jack non è veramente un killer elegante come vorrebbe e come pensa di essere, e le sequenze didascaliche con le immagini di Blake e i filmati di Glenn Gould appaiono volutamente kitsch (la qualità visiva è scarsa e sono accostate come sono uno squilibrato potrebbe),  come se fosse stato davvero Jack a comporle. Nella sua favola personale di serial killer perfetto. In questo senso Jack è molto umano: quanti di noi hanno vissuto, almeno una volta, quella che gli psicologi chiamano favola personale? Tutti. Ovvero, pensare di essere al centro di una storia. Esempio tipico1: ogni adolescente, che si sente come il protagonista di un film struggente e per cui mini-problemi suoi diventano problemi di enorme entità , per chiunque. Quando sei un adolescente, questa cosa è normale e sana, un modo di transitare verso l’età adulta. Esempio2: non cosi tipico, perché tipico di svariati disturbi di personalità . Persona X, prendiamo una donna che pensa esclusivamente alla sua ossigenatura, ai suoi gioielli, ai suoi vestiti e a tirarsi fuori da situazioni spinose (in cui si mette a causa della sua brama di possedere cose e persone) manipolando – mentendo – agli altri e sottomettendo persone dalla naturale inclinazione all’altruismo e al bene – un essere umano medio e normale, in teoria – commette l’ennesima manipolazione ai danni di ‘brava persona Y’ senza battere ciglio, perché è lei quella più importante. Ecco. Se sono certa che tutti siamo passati in prima persona da Esempio1, sono anche certa che non tutti siamo stati Esempio2, ma che siamo stati in qualche modo toccati da Esempio2. Esempio2 non ha ucciso nessuno, ma è sulla buona strada per non battere ciglio anche in quel caso. Per esempio, se le sue azioni causano sofferenza e dolore acuti a persone in grave difficolta e con problemi di salute, questo non sembra riguardarla.

Ecco, pardon la digressione ma era necessario per giungere a questo punto importante: per tutta la durata del film, Jack non viene giudicato, è vero. Lars von Trier si era prefissato di dare un ritratto non giudicante del personaggio, ma ciò non significa darne un ritratto positivo – come invece certa critica sembra aver pensato, abbandonando la sala prima che il film terminasse. Esempio2 è un essere immondo, ma se fai un film su Esempio2, devi pur descrivere il personaggio e lasciar che il pubblico arrivi a tale conclusione, se glielo dici tu sei solo Inarrituun maestrino.  E Jack poteva benissimo essere Esempio2, prima di commettere il primo omicidio – fatta eccezione per i gioielli e i vestiti – perché stiamo comunque descrivendo una personalità con tratti fortemente patologici – a differenza di Esempio1, che è solo un adolescente in crescita a cui facciamo tutti i nostri migliori auguri.

In questo film, siamo testimoni di così tanti processi mentali patologici, che, oltre al giudizio che automaticamente scatta (serial killer = male), siamo in grado anche di andare più in profondità e di accorgerci di una serie di dettagli molto interessanti.

  • Primo incidente: mi ha colpito la linea su cui si gioca il dialogo straniante in cui sembra che la vittima chieda di essere uccisa e suggerisce a jack che potrebbe essere un serial killer. Il tutto sembra essere una versione interiorizzata e distorta del vero dialogo che sta avendo luogo, come se fosse Jack a dire a se stesso che potrebbe essere un serial killer, con i campi e controcampi brutali sui loro volti e quelle zoomate violente sul crick che costituiscono una sorta di grottesco Kulesov.
  • Non c’è la classica alternanza campo-controcampo nella sequenza del Quarto Incidente: questo è l’omicidio che segue immediatamente la strage-caccia della famiglia, che segnava una sorta di cesura tra la parte iniziale, più umoristica, e quella che segue, in cui ridere è incredibilmente difficile, e per cui il senso di colpa dello spettatore per il divertimento iniziale cresce. Se l’omicidio della famiglia è quello che zittisce tutti in sala, ma si mantiene estremamente surreale (e secondo me è proprio questa dimensione surreale che fa funzionare quel segmento senza che lo spettatore lanci oggetti allo schermo), con Jack che portando in gita la mamma con i figli per poi cacciarli sente di avergli davvero fatto dono di qualcosa di importante, di averli resi parte di qualcosa di grandioso (Jack è sempre piu’ delirante), il quarto segmento è sicuramente il più intimamente disagevole. C’è un coinvolgimento emotivo e fisico dello spettatore che viene forzato, appunto, dalla mancanza di campo e controcampo nel dialogo tra Jack e Jacqueline/‘Simple’. Noi siamo lì, risulta più difficile distanziarci, a questo punto, perché siamo nel mezzo della vicenda, pienamente coinvolti dai movimenti di macchina e dai primi piani alla kammerspiel. Il quarto incidente è quello che mi ha colpita di più. Non solo per il motivo appena descritto, ma anche per la riflessione su vittima e carnefice, e la pietà che la vittima ha del carnefice. Se Jacqueline sopporta fino all’ultimo i soprusi psicologici di Jack, in parte per via dell’attaccamento emotivo, in parte probabilmente perché pensa che Jack debba avere qualche ferita passata, la vera rivelazione è Jack stesso, che, nonostante carnefice, si ritiene vittima di un sistema per cui le donne essendo deboli costringono gli uomini a stare nella posizione in cui sta lui. Ho trovato molto coraggiosa questa scena e il monologo di Jack, e, soprattutto, l’ho trovato uno dei pezzi più rivelatori e meno compromisingsu quello che definiamo mansplaining, ma che era la stessa cosa anche prima di avere un nome. L’ho trovato una critica alla società maschilista fortissima, e, finalmente, non scontata e non imboccata.

 

  • L’escalation degli incidenti è simbolica in diversi modi. Ogni omicidio in qualche modo sembra rappresentare un tipo di crimine, con il primo che è non premeditato e di impeto, il secondo più strumentale, il terzo è un massacro familiare in cui però Jack è distante dalle sue vittime ed è un esercizio di stile (da parte di Jack) portato all’estremo, il quarto è violenza domestica, il quinto crimine contro l’umanità. Ma il climax è anche nel disagio che si prova, dopo aver riso colpevolmente durante i primi omicidi, nel guardare gli ultimi, comunque articolati su un bizzarro continuum humor – serietà.

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  • Il discorso meta: come Jack cerca di costruire la casa con ogni volta un materiale diverso, anche con Trier pur mantenendo sempre uno stile riconscibilissimo e unico ha cercato di fare cinema con mezzi diversi, sempre tentando di dire qualcosa di nuovo e unico e suo. Jack riesce a costruire una cosa solo con i corpi delle sue vittime, un tentativo sgraziato che è la perfetta epitome della carriera di Mr Sofistication. Ora: qui mi ricollego sulla mancanza di un giudizio: o meglio, ci viene chiesto di non giudicare Jack. Un po’ viene da se’ farlo, è un serial killer e, soprattutto, un caso disperato, uno che fa tutto nel nome di un suo concetto personalissimo di arte e vive appunto una sorta di fiaba personale in cui la sua immagine di se e quello che lui è non corrispondono, non combaciano mai, davvero. E questo fa fallire miseramente la costruzione della casa di Jack, come se in qualche modo quello che lui pensa e progetta non riesca mai a prendere la forma che vorrebbe. Penso che questo sia il grande punto di contatto tra il personaggio di Jack e il discorso sull’arte. L’assenza di giudizio su Jack, richiede di separare lui dalle sue azioni. Ovvero: se incontro Esempio2 per strada, posso pensare che è una persona tremenda. Se faccio un film su Esempio2, e sono un regista che dello storytelling non se ne fa niente, mi immagino che non mi stai raccontando la storia sbadiglievole di una come Esempio2, ma stai cercando di dirmi altro, giusto? Lars von Trier non sta facendo un film per farci avere compassione di Jack. Sta, da un lato, studiando il disturbo mentale di Jack, e il suo comportamento deviante, ma in modo diverso da quello che il cinema di solito fa: Lars studia come Jack si percepisce, e questo di per se è già super interessante. E poi lo utilizza per fare una riflessione sui materiali dell’arte, e, nel caso di von Trier, sono gli attori e i temi. LvT ci dice: magari ho fatto delle cose che non vi piacciono, ma ogni volta lo facevo per fare arte, e volevo comunicare qualcosa. A volte non ha funzionato, a volte ha funzionato quasi per caso, altre volte è stato un successo, ma io avevo SEMPRE qualcosa da dire.

E io non vedo l’ora di sentire  (vedere) la prossima.

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** Un pensierino speciale per Matt Dillon, cheè un genio e, come sempre, in parte oltre ogni ragionevole aspettativa. C’ è una bellissima intervista a lui, oltre che a Lars, su Cahiers du cinema di Ottobre, molto interessante. **