Suspiria (2018)

Sono un paio di mesi che sto tenendo per me quello che penso di Suspiria di Guadagnino. L’ho visto qui a novembre e ho atteso che uscisse anche in Italia per scriverne. E lo faccio, perché sono imparziale, ascoltando la favolosa colonna sonora di Tenebre (Tenebre Remixa ripetizione, per essere precisa).

 

Ah, buon anno!

Il post sarà lungo e laborioso, perché non posso parlare del Guadagnino’s prima di aver detto un paio di cose sul Maestro’s (e, per farlo, riprenderò un mio vecchio post e lo incciccirò perché ho rivistoSuspiriadue volte da quei tempi e si e inciccito anche il mio amore per esso), e spero che per chi mi legge apprendere che il post sarà lungo sia fonte di febbrile eccitazione – lo so, sto esagerando – come quando ti accorgi per la prima volta che Il Gatto a Nove Code dura due ore e non come quando scopri che il video delle vacanze di tua zia dura due ore.

La mia adorazione per il Maestro non è un mistero. Non lo è nemmeno per lui, dopo che, mentre autografava la mia copia di Paura,non sono riuscita ad articolare una frase completa se non “lei è un grande artista”, con una povertà di vocabolario che neanche un posto al sole.

Dario Argento è davvero un genio. Punto. Non c’è spazio per i “eh ma il Cartaio”, “eh ma la Terza Madre”, e ora vi spiego perché – anche se rischio di suonare didattica e deferente, mi immolerò per una giusta causa. Quanti registi horror vi vengono in mente che siano riusciti a partorire più di cinque capolavori? Il regista horror che è anche un serial masterpiecer non esiste. A meno che non sia un unicorno, come Dario Argento. Un angelo del focolaio. Un cantore della morte. Un artista che con la sua immaginazione – e con tanto, tantissimo sangue – dipinge scenari che hanno un punto in comune, un punto che fa funzionare tutto (ci torneremo presto) anche quando c’è qualche buco di sceneggiatura e qualche imperfezione.Tra quelli che considero i capolavori di Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio, Il gatto a nove code, Profondo a rosso, Suspiria, Tenebre,  Inferno), il mio preferito è, sicuramente il suo quinto film e quinto capolavoro (fino ad ora, ricordiamocelo, non ha sbagliato un colpo), Suspiria. Una caramellona horror. Un red velvet di morte. Glassato di sangue.

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Argento’s

L’incipit di Suspiria ci presenta Susy, una ballerina che si trasferisce in una prestigiosa accademia di danza a Friburgo. Arrivata alle porte dell’accademia, un palazzo dalla facciata decorata in rosso e oro (ex casa di Erasmo da Rotterdam!) Susy, sotto un acquazzone di quelli che i capelli si aggrovigliano tipo nido di tordo, viene travolta da una ragazza (Patricia) che, dopo aver emesso fonemi incomprensibili con una gravitas preoccupante, sparisce correndo nei boschi, e dalla anonima vice direttrice che le dice che non potrà passare la notte in accademia e che dovrà essere ospitata in città da un’altra ballerina della scuola.

La trama è già abbozzata, il finale è già stato innescato, eppure tutto questo conta fino a un certo punto. Di certo non quanto il fatto che Susy ci venga presentata come una creatura eterea e innocente, vestita quasi sempre di bianco e in abiti svolazzanti, diversamente dalle altre ragazze, che indossano gilet e pantaloni palazzo (parentesi: se avete una leggera dipendenza da shopping, Suspirianon la guarirà), molto più simili alla Diane Keaton di Annie Hall. Non conta neanche quanto la sequenza in cui Susy scende dall’aereo e sale nel taxi. Dario Argento la filma all’interno di quello che appare come un ambiente pop, coloratissimo, straniante, tutto impostato sui toni del blu, del vermiglio, dello smeraldo e dell’ocra e che questi colori non ci abbandoneranno per tutta la durata del film – un effetto ottenuto utilizzando delle inibizioni particolari, una pellicola a bassissima sensibilità che aumentava di molto la profondità di campo, e lenti anamorfiche.

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Ciò che conta, è sicuramente la storia, ma soprattutto, lo stile, il montaggio e la musica con cui Dario decide di raccontarci questa storia. E come le persone muoiono. Non è solo una questione di sangue, è una questione di paura. La prima morte cui assistiamo è cosi iconica che quel soffitto e quella finestra sono tra i più citati nel cinema horror.  Pat, la ballerina che era fuggita nei boschi all’arrivo di Susy, si rifugia da un’amica e non facciamo in tempo nemmeno a comprendere il motivo della sua fuga, perché muore nella celeberrima “scena della finestra” (per la morte più iconica con appendiabiti si veda Tenebre, per favore). La scena della finestra è un piccolo corto a sé stante, perché dà il via a una delle morti più spettacolari del cinema horror. Pat viene prima colpita da una mano misteriosa, rugosa, inumana, che proviene dall’esterno e frantuma il vetro – la mancanza di un volto, di un proprietario di questa mano mostruosa ci fa capire da subito che abbiamo a che fare con qualcosa di Altro, e di potente – , poi sventrata con un coltello e, infine, fatta precipitare attraverso un coloratissimo lucernario di vetro. Uccisa, insomma, con una tigna che manco i cospiratori di Rasputin.

Quello che conta, ancora, è che Dario Argento mette tra le alte sfere della scuola dell’Accademia il personaggio di Miss Tanner, un’ Alida Valli così accapponante-la-pelle che-neanche-in-Occhi senza volto. O che lo psicologo (Mandelli) che rivela la storia di magia nera di cui l’accademia è permeata sia interpretato da Udo Kier, che sta bene dappertutto.

Con Suspiria, Dario Argento mette pienamente a frutto il suo talento artistico in modi diversi. Visivamente, oltre a quanto appena descritto, crea una sequenza magica come quella con le lenzuola appese e le sagome nella luce rossa, che sembra generare una dimensione eterea e misteriosa altra – come un cambio scena a teatro.

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E anche dal punto di vista del suono, in due modi. Primo, la sequenza ecolocazione galorein cui Sara (l’amica di Susy che inizia a sospettare che vi sia qualcosa di pericoloso nell’accademia) segue le dirigenti della scuola ascoltando il suono dei loro passi e arriva a scoprire l’orribile verità. Secondo, la musica, eseguita dai Goblin, è inquietante e ritmata ed e come fare le scale della suspense ma con le orecchie. Proprio quella musica, è stata cantata da Dario Argento a Simonetti per fargli capire cosa voleva. E poi suono e visivo sono combinati in modo esemplare nella scena finale, con Elena Markos che non viene mostrata per la maggior parte del tempo ma sentiamo (udiamo) che è lì, che è uno dei momenti più inquietanti della cinematografia horror, ed è pura magia. E tutto è difficile, quasi impossibile da trovare, perché quando un regista cerca di trasmettere la sua visione senza compromessi, a volte fallisce (vedi ad esempio Mother! di Aronofsky, che applaudo per il coraggio e l’impegno, ma che mi ha infastidita per l’incapacità di fermarsi quando era il momento di astrarre un po’ e impedire al film di diventare letterale più di uno spiegone di Christopher Nolan). Non sto cercando di vendere questo film. Questo film è tutto ciò che un film horror dovrebbe essere anche adesso, 40 anni dopo: senza compromessi, inquietante, spaventoso, artistico, personale e indimenticabile – come è stato quest’anno Hereditary. I film che si dimenticano non sono grandi capolavori.

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Dario Argento ci conduce per mano in una galleria degli orrori, lasciando la presa proprio quando si fa buio e abbiamo più paura, verso un finale spettacolare e spaventoso, dove forse c’è la migliore sintesi tra la sua transizione verso l’elemento soprannaturale – e questo è il primo film di Argento in cui veniamo introdotti a questa tematica – e la propensione per il thriller truculento dalla trama intricata, tutto giocato sull’indizio risolutivo pizzato lì all’inizio, quello che ci fa sentire un po’ svampiti perché non l’abbiamo notato, quello che ci fa essere felici perché il regista ha giocato con noi e ci ha confusi fino alla fine e, quando questo meccanismo funziona, non c’è nulla di meglio. Per tutto Suspiriaabbiamo la sensazione di girare per un bellissimo museo del terrore, dove ogni inquadratura costituisce un lugubre quadro dalle tinte sgargianti (solo Dario può tenere in piedi un ossimoro del genere), fino a rendere il film stesso una spaventosa opera d’arte.

 

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Guadagnino’s

Ora sono ancora più imparziale, perché è finita la colonna sonora di Tenebre ed è iniziata quella di The Guest(no, non sto andando avanti a colonne sonore, ho sentito anche un intero album dei Boss Hoggnel frattempo). Sono imparziale anche perché, dopo la mia riluttanza iniziale a un remake di Suspiria– che chiaramente non ne aveva bisogno – mi ero aperta alla possibilità che, anche se nessuno sarebbe riuscito a eguagliare l’originale, il film potesse essere un buon film.

Non ho mai scritto nulla su Luca Guadagnino per una sola ragione: non lo avevo mai considerato come un regista interessante per me, perché lo credevo puramente interessato a rappresentare i drammi sentimentali della borghesia e, dal momento che sono abituata alle riflessioni sull’autoindulgenza borghese opera di Haneke (<3) e non amo i drammi sentimentali a meno che non siano all’altezza di Blue Valentinee Hong Kong express o un Linklater a caso. In più sapevo che Guadgnino aveva in programma di fare la sua versione diSuspiriae la cosa non mi andava, ero ancora amareggiata dal tentativo malriuscito di Refn di tributareSuspiriacon The Neon Demone l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era: perché non lasciate Dario in pace (leave Britney alone!).

Ma questo èun atteggiamento assolutamente cretino, in generale, e ancora di più in questo caso. Almeno, questo e quello che ho pensato dopo aver visto Call me by your namee ho passato gli ultimi 30 minuti del film a singhiozzare in una sala quasi vuota, con il mio fidanzato e un nostro amico, fortunatamente troppo gentile per chiedermi di smetterla. Ho pianto cosi male con pochi film (tipo Room, Lawrence Anyways, Peppermint candy, The florida project, tra le ultime visioni emotivamente traumatiche). E mi ha commosso perché era una bellissima storia d’amore raccontata come si deve (vedi sopra). E mi ha sorpresa, perché non c’erano fascisti o nazi a picchiarli, la famiglia a sventolare crocefissi o tutti i topoi drammatici tipici dei film che ruotano attorno a una storia d’amore omosessuale (fatta eccezione per Tropical Malady). Ho anche adorato il modo in cui si accenna delicatamente alla malattia e la viscontitudine del tutto. E quindi sono sincera quando dico che, a vedere Suspiriadi Guadagnino, ci sono andata aperta alla possibilità che fosse un bel film.

Allora, Luca Guadagnino è un regista capace, e questo non è opinabile. Il suo Suspiria ha degli spunti interessanti, un’estetica a tratti ipnotica – incredibilmente qui danzano un casino, a differenza dell’originale dove praticamente non balla mai nessuno – e delle trovate sue non letterali che apprezzo. Ha l’enorme pregio di non avere paura di fare quello che vuole fare, ma ha anche tanti problemi, uno dei quali è che, anche se viene definito uncompromising (spesso utilizzato dalla critica quando per motivi ignoti pensano che un film debba piacergli ma è un pastone senza senso) è, purtroppo, uno dei film più compromising cui riesca a pensare.

Mi spiego. Prima di spiegare, urge sottolineare che quello che questo film ha in comune con quello di Argento sono: le streghe, i nomi dei personaggi, la Germania. Basta. E mi sta benissimo: nessuno si aspettava un remake frame by frame o un’operazione letterale, credo che abbiamo tutti troppo rispetto di Guadagnino per averlo anche solo pensato e credo che Guadagnino abbia troppo rispetto per il film di Argento e non lo avrebbe mai fatto.

Il lussureggiante impianto visivo del Suspiria originale, l’inquietudine e l’angoscia collettiva e primordiale per il Male, la colonna sonora agitante, vibrante e ricca di bassi e le trovate visive mesmerizzanti non ci sono. La sensazione che ho avuto non è tanto che questo fosse un pretesto per fare un altro film, io penso che Guadagnino abbia partorito una sua versione di Suspiria, ma è così diversa per intenti e risultati dall’originale, che suona davvero come se l’originale fosse un puro pretesto. Ed è diversa in modo fallimentare in diversi modi, ma il problema di fondo è che l’angoscia non c’ è, e non c’ è perché questo Suspiria ha davvero la sindrome dell’esercizio di stile. Se Argento usa, sfrutta, il cinema per mostrarci il suo incubo, che non manca di avere un sotto-testo politico, Guadagnino si concentra troppo sulla storia, e trascura l’uso del Cinema, mancando di veicolare i suoi significati in modo simbolico e sottile.

 

Primo: la colonna sonora. Thom Yorke è un genio, ma la colonna sonora sono una serie di ballate tristi e malinconiche, che fanno un bel disco ma che non funziona con queste immagini. Stavo giusto parlando ieri con il mio fidanzato di quanto sia Yorke che Greenwood siano ottimi musicisti, ma quanto Greenwood sia un genio a comporre colonne sonore e Yorke no. La colonna sonora dell’originale è lugubre, misteriosa, innaturale mette paura a me quanto a mia nonna e al primo che passa per strada, come se pescasse nell’inconscio collettivo quella che è un’angoscia senza nome e senza fonte, che sta li da più tempo di tutti noi. E questo è uno dei problemi, più in generale, del film di Guadagnino: non c’è angoscia, c’è disagio, c’è del malessere, ma è tutto molto blando.

 

In basso a sn, un outfit a la Fassbinder

In basso a sn, un outfit a la Fassbinder

Secondo: visivamente il film è molto anni 70, ma più come Klute, Tutti gli Uomini del presidente eLa conversazione.Ha l’estetica di un film politico e, il grave problema di questo film, è che tenta davvero di esserlo, senza riuscirci. Ha l’estetica di un film di Fassbinder, ma non ha nulla della profondità dei film di Fassbinder.

Bits of trama: anche qui l’accademia è una congrega di streghe, e si, Patricia è stata eliminata dalle streghe (in realtà viene tenuta mezza morta, rinsecchita e mutilata a nutrire il cadavere vivente di Elena Markos), e si, per l’appunto, Elena Markos è una strega potentissima cui Susy deve essere fornita come simulacro per poter tornare ‘in vita’.Susy desidera diventare il simulacro della Markos, e un flashback ci mostra la piccola Susy che confonde l’Ohio con Berlino – ecco, questo è sicuramente il mio momento spreferito del film –  mentre studia geografia in casa. Questo è un dettaglio che non so nemmeno da che parte iniziare a commentare, ed è una scena sprecata come poche. Ora, l’idea che Susy non solo voglia prestare il suo corpo alla strega, ma anche che senta che questo è lo scopo ultimo della sua esistenza, per cui era predestinata ad andare a Berlino per andare incontro alla sua vocazione (non la danza, ma la congrega) era interessante, e mi aveva comprata. Però la scena della cartina è irritante, manco stessimo vedendo Omen. Inoltre, nell’originale il mondo esterno esiste come impalcatura per la trama e crea un bellissimo contrasto con la dimensione altra dell’accademia, aiutandoci da subito a percepirla come qualcosa di non naturale. Qui, invece, il mondo esterno ha un ruolo cosi rilevante che diventa lo spiegone del film: si, purtroppo è cosi. Elena Markos deve ‘risorgere’ perché non si può sotterrare il senso di colpa nazista nel passato, altrimenti arriva la banda Baader-Meinhof e spara a tutti e piazza le bombe, capito? Non possiamo mettere la polvere sotto il tappeto, altrimenti una rinascita della società (qui messa nelle mani della Markos) richiederà un grosso tributo di sangue. Adesso. Guadagnino era stato cosi bravo a non mettere i nazi in Call me by your name, e li mette qui, e non sottilmente con nell’originale, ma spataffiati in faccia allo spettatore? Ecco perché il film è compromising da morire: il problema sono le cose cattive fatte dagli uomini (maschi) e solo le donne con la loro potenza possono prendere in mano la situazione (?). Idealmente, un film in cui la figura della donna è centrale e le figure maschili sono spiattellate ai bordi ed è la grazia con cui veniamo stereotipicamente appiattite a diventare invece un’arma (qui la danza = grazie femminile = potenza) mi suonerebbe come interessante (cosa che peraltro c’ è nel Suspiria originale e per questo Guadagnino va lodato, di base l’idea c’ è). Se non fosse che questa idea è affiancata da troppe altre idee: la religione, il nazismo, il terrorismo, la colpa, la vergogna, l’amore perduto del medico maschio che si è salvato e la sua amata no, il medico (la scienza) che non crede alla sua paziente quando arriva tutta sconvolta e urla che le streghe vogliono prendere possesso di lei, la vocazione e il diritto di nascita a voler essere grandi e forti e a realizzarsi. C’ è tutto ed è tenuto assieme cosi poco coerentemente che mi fa soffrire. Perché è uno spreco di idee interessanti. Facciamoci presente che anche nell’originale c’erano delle sottili stilettate al nazismo, ma la pesantezza che il film gettava addosso era ancestrale e uroborica: potevamo essere in qualunque momento della storia dell’umanità, ed era lo stesso – il Male non ha un’epoca.

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Una grossa differenza sta nella danza, per due motivi: 1) inSuspiriadi DA non ballava nessuno, se non per un paio di minuti e, infatti, ero molto felice per le coreografie e l’uso della danza anche per riassumere i rapporti tra Susy e la sua maestra, che è una delle parti più interessanti del film e mai mi stancherò di dire che Tilda Swinton si mangia tutto; 2) la danza come strumento di morte: quando Susy danza, connettendosi con Elena Markos, spacca le ossa ad altre ballerine (a turno diciamo) che si sono messe tra lei e la Markos, in sostanza. Sebbene la sequenza della prima morte sia interessante e molto ipnotica, ha comunque il difetto di essere noiosa prima che sia terminata. E, soprattutto, diventa stantia nelle occasioni successive.

 

Se la connessione tra i corpi, con uno che si libera nella danza e l’altro che viene invece ingabbiato nel suo stesso scheletro e di certo interessante, è un meccanismo su cui viene giocato un po’ troppo. Ma questi sono problemi che si perdonano. Quello su cui non riesco a soprassedere è il finale. Quando Elena Markos prende possesso del corpo di Susy. Primo: la strega tipo abominio alla Basket case/Stuartgordonesca non ha alcun senso e stona totalmente con il mood austero e fassbinderiano da Germania est dell’intero film. Secondo: la figura che sembra il demone metallaro di Sinister 2 (si, neanche l’1) che schiocca le dita e fa esplodere le teste è da horror di serie B di bassa lega, uno di quelli della Blumhouse con i cui proventi la Blumhouse fa poi i film belli, per dire. Perché? Guadagnino è un ottimo regista, ma non è capace di fare horror. Se non altro, la mezz’ora conclusiva di The neon demonha quella presa allo stomaco, e quella visceralità sabbatica che a questo manca (poi il resto è un film problematico, comunque).

Ci stavo di brutto. Nella dimensione rituale della danza e nella vocazione a essere il simulacro di una forza (buona o cattiva che sia, o anche ambedue le cose allo stesso tempo) come simbolo dell’incarnazione della forza e della potenza femminile, e anche del ribaltamento della danza come disciplina femminile che diventa un’arma,  ma questi spunti positivi si perdono in tutte le sotto-trame e i sotto-significanti che vengono forzati nel film. Vogliamo parlare di colpa e di vergogna? Io trovo sbagliato fare appello a tutto in modo cosi esplicito: nazismo, terrorismo, uomini che sono inutili eccetera (infatti l’unico personaggi maschile con un minimo di rilievo, anche se inutilissimo eh, viene interpretato da Tilda Swinton, che è la cosa più didascalica a cui io riesca a pensare). Io credo che un buon film sia in grado di farti sentire che quello è il punto in modo più generale, andando appunto ad attingere a simboli più archetipici. In qualche molto l’ho vista un po’ come una giustificazione e uno spiegone forzato, piuttosto che un messaggio forte. Non è  necessario spiegarmi che gli uomini hanno fatto il vero Male e che il Male della magia nera è  meno Male del Male dell’Uomo perché è tutto sommato una risposta forzata da esso. Questo film mi ha fatto sentire la mancanza di quelli in cui c’è un significante e il significato ti colpisce in faccia senza che tu debba essere imboccato, o quando il mismatch tra i due è cosi forte da fornire più livelli di lettura, o da stimolare alla riflessione.  E mi dispiace, perché sono certa che volesse esserlo, e sono certa che ci sia stato un momento in cui Suspiriadi Guadagnino sia stato, in potenza, un grande film interessante e che lui fosse armato di tutte le migliori intenzioni. Ma anzi che svilupparsi in quel modo che rende un film un essere vivente che ti si attacca addosso e ti resta sotto la pelle, Suspiria è diventato un film che tenta a tutti i costi di fare questa cosa, perdendo qualsivoglia magia.

Tilda sempre favolosa

Tilda sempre favolosa

Non voglio essere caustica o tranchant, e non voglio usare l’originale come paragone pedissequo, anche se l’ho usato per orientarmi nello scrivere il post: il Suspiria di Guadagnino ha i problemi che ha indipendentemente dall’originale, ma in ogni caso sarebbe stupido non farci i conti, dato che esiste. Mi porto a casa un sacco di spunti visivi interessanti e una potenza incredibile, nonostante tutto il pasticcio che ci sta sopra. Ce ne vogliono di film cosi oggi: servono registi bravi e con le palle di rischiare. Ma è come quando si fa una cosa e poi si continua a ritoccarla ossessivamente finche non la si è rovinata e non si può più tornare indietro. Trovo che questo film soffra di questa malattia, ma è anche un’occasione mancata di lasciare del mistero e del lavoro cerebrale per lo spettatore. Non è obbligatorio che ogni sequenza debba essere leggibile in una sola direzione, eppure questo Suspiriaci forza a farlo. Non c’ è margine di riflessione, e questo spegne sempre tanto il mio entusiasmo. Tagliando e scavando, in Suspiria (2018) c’e del materiale incredibilmente interessante, che sarebbe stato uno shocker artistico puro forse eccezionale, strappando la superficie narrativa e lasciando il crudo misticismo che e’ li sotto, senza bisogno della tonnellata di elementi narrativi aggiuntivi che mi sono risultati come un pesante voice over.