Loving

Tutto il tempo che ho passato lontano da qui, dal mondo che inizia con la tastiera e finisce con i pochi che mi leggono, che contiene cinericordi, folgorazioni da frame che valgono un film, riflessioni generate da visioni che mi inseguono, tutto questo tempo l’ho passato a lavorare. Non mi sono concessa nemmeno un attimo per fermarmi a scrivere. Perché di film ne ho visti, e anche di belli. E adesso voglio riprendere a parlarvene, perché magari qualcuno non lo conoscete o ve lo siete perso e ce ne sono certi che se non li avessi visti mi morderei le mani e, se non li condividessi, che brutta persona sarei. Un troll.

troll

Film che prometto di recensire da qui a lì, senza aspettare troppo a lungo: Loving e Midnight Special, del grandissimo Jeff Nichols – uno sci-fi carpenteresco molto intimista e, boh, perfetto; Carnage Park, di Mickey Keating (quello di Darling, per intenderci) – una fiera dell’est che al posto del gatto-bastone-acqua-topo ha rapinatore-serial killer-final girl; Il Cliente, di Asghar Fahradi – questo richiederà tanto impegno, perché è perfetto e mi sento male a pensare a tutto quello che vorrei dire (alla fine temo di rimanere con una manciata di banalità e il malessere del vorrei ma non posso, ma ci provo); Paterson, di Jim Jarmush – la poesia; Queen of Earth – il terrore senza sapere perché. Eccetera. Altra roba.

Iniziamo.

Loving

Dato che è appena uscito e l’ho appena visto, Loving. Allora, partiamo dal presupposto che io adoro Jeff Nichols. Lo adoro e lo seguo dall’uscita nelle sale di Take Shelter. Era luglio, ero sola e l’ho adorato. Potete trovarlo qui. Poi ho visto Shotgun Stories. Poi Mud. Jeff Nichols è uno di quei registi che apprezzo perché è nuovo ed è bravissimo e ho voglia di scoprire il suo lavoro passo dopo passo. Facevo questo discorso tempo fa, riferendomi a lui e Ti West e gente così. Midnight Special (prossimo post in programma) lo aspettavo con ansia. Loving pure. E non ho temuto un solo secondo quando ho letto la recensione (sloppyssima) del Guardian che diceva che il film non sboccia.

Col cazzo. Pardon, non sono per niente d’accordo. Invece grande Brian Tallerico di Roger Ebert che non delude 🙂

Loving è un film alla Nichols. Si riesce a sentire il respiro dei personaggi, i loro pensieri, si è lì con le loro mani, che trafficano e si muovono e lavorano, fino dal primo frame. Nichols è un regista estremamente materico, uno che fa parlare poco e che racconta con le immagini. Fa cinema, e fa quello che il cinema dovrebbe fare più spesso: eliminare tutti i dialoghi che nella vita reale non avvengono, raccontare con i gesti e i movimenti e i passaggi d’umore che si stendono sui volti dei personaggi. Chiariamo subito una cosa: sono una grande fan dei dialoghi. Se a questo mondo non ci fosse Richard Linklater sono sicura che non esisterebbero più, che ne so, le colline. Per dire quanto mi piace. Tuttavia, le storie che racconta Nichols non sono le storie che racconta Linklater. Le storie che racconta Nichols hanno molto a che vedere con la semplicità di amore e dolore, due argomenti su cui è davvero difficile speculare a parole senza risultare fastidiosi. Io non voglio vedere Leonardo di Caprio morente nei ghiacci che vede il fantasma volante della moglie per capire le cose, io voglio vedere delle persone reali che si amano e cercando di combattere contro qualcosa di orribile con la semplicità d’animo tipica delle persone vere. (ogni scusa è buona per attaccare Inarritu, qui, questo ormai si sa)

Loving racconta la storia di Richard e Mildred Loving, un bianco e una nera che, nel 1958 sgattaiolano fuori dalla Virginia per andare a sposarsi nello stato di Washington. Ma, in Virginia, non solo il loro matrimonio non è legalmente valido, ma è anche considerato un insulto alla morale comune e, perciò, la coppia viene arrestata e obbligata ad abbandonare lo stato – e, questo, è il favore di un giudice che, altrimenti, li avrebbe incarcerati per un anno. Da qui, la vicenda si svolge attorno al loro trasloco, alla nostalgia di casa e della propria libertà e alla battaglia legale iniziata da un avvocato per i diritti civili il cui scopo ovvio era arrivare alla corte suprema, con un epilogo che tutti conosciamo ma che non manca di forza. Anche se, secondo me, il vero epilogo del film, che sono proprio i minuti finali, che se ci penso piango qui.

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Nichols qui è tutto campi lunghi e primi piani, di volti e di mani, e ci racconta la storia con pause e silenzi. Ci racconta la storia con una delicatezza tale che ci sembra di seguire i personaggi da vicino, di affrontare con loro, con i tempi che ci vogliono nel mondo reale, i sacrifici, i momenti orribili ma anche quelli belli e piacevoli, quelli delle belle giornate che anche se stai affrontando una battaglia epica per i diritti civili le hai lo stesso, con la riluttanza a farsi coinvolgere in qualcosa di eclatante ed enorme, perché, alla fine, l’unica cosa che vuoi è la tua vita, quella semplice e normale, che ti è stata negata.

Loving è una storia d’amore, di coraggio, di un’avventura sofferente ed emozionante, con quel senso di urgenza e imminenza quasi sovrannaturale che è tipico della sua filmografia (Midnight Special e Take Shelter in particolare), di un popolo che ha dovuto sentirsi dire a gran voce che la loro legge era bifolca e gretta e insensata, e questo solo 50 anni fa. Ma non è un melodramma. Io ho pianto, ci ho pensato e ripensato e mi sono commossa fin dal primo istante, fin da quando lui posa i mattoni in un cantiere e poi mostra a lei il terreno per costruirle una casa e tu sai che, prima o poi, vedrai le due scene unite assieme e, quindi, piangi. Da subito. Piangi prima di vedere il Male che si infila nelle loro vite, perché dopo un minuto di film vuoi già bene ai personaggi, al loro modo di occupare lo spazio, così discreto e, allo stesso tempo unico, il loro modo di stare in piedi, di imbarazzarsi, di essere veri.

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La regia è terribilmente intima, ci si sente quasi in imbarazzo per la sincerità con cui Nichols ci concede di guardare la vita dei Loving e ci rimanda quella che è la verità più forte: nessuno di loro aveva mai pensato di cambiare il mondo, di interrompere il corso della storia e cambiare le vite di moltissime altre persone dopo di loro. Richard e Mildred Loving volevano solo amarsi e stare insieme, nient’altro. E questa urgenza, questa necessità di essere liberi di essere felici è la componente più forte del film, grazie anche a Joel Edgerton (fantastico anche in Midnight Special di Nichols, e in Animal Kingdom e il suo The gift) e Ruth Negga, che in qualche modo non recitano ma, in quel momento, sono. Inoltre, il fatto che la forza motrice di tutto è davvero un sentimento semplice e fortissime è, secondo me, riassunta alla perfezione nella sequenza in cui il fotografo di Life, Grey Villet, interpretato da Michel Shannon (che è una presenza costante nella filmografia di Nichols e che ovunque lo metti sta bene perché è bravissimo e ha quell’aria immediatamente buona che se poi vede le interviste a Nichols capisci perché lo sceglie), e parla con Mildred di quello che stanno facendo, di appellarsi alla corte suprema, e lei dice con semplicità che immagina che aiuteranno anche altre persone, ma si capisce che la cosa che ha mosso tutto era il loro amore e la necessità di poter stare in un posto che per loro era casa. Nichols affronta temi come amore, famiglia e appartenenza a qualcosa di più grande e invisibile come il genere umano senza mai ricadere in schemi fastidiosi da melodramma acchiappa-pubblico, senza mai spingere sull’acceleratore del pianto, senza mai dire più di quanto è necessario e questa capacità meravigliosa di raccontare i grandi temi dell’essere umano con una semplicità e una verità così dirette è esattamente quello che mi commuove e mi trascina e che guida tutta la filmografia di quello che, secondo me, è uno dei registi migliori che abbiamo adesso. E adesso è il momento di apprezzarlo. (e, in caso non l’aveste già fatto, di correre a guardasi tutta la sua, breve, filmografia, su su :))