Amour

 

«A volte sei un mostro, ma sei gentile»

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Questo è un film che, a raccontarlo, mi fa emozionare ancora molto e in modo inarrestabile, un po’ come quando George – il bravissimo Jean Louis Trintignant – ricorda che, quando era ragazzino, nel parlare di un film visto a un ragazzo del vicinato, aveva sentito montare dentro di sé le lacrime, che erano poi esplose senza lasciargli più scampo. Capita sempre anche a me. Quando ho raccontato alla mia mamma Melancholia è stata una vera tragedia. Per non parlare di Cachè. Un disastro. O È stato il figlio. Quando incontro qualcuno mi chiedo: raccontando quale film sarà stato sopraffatto dalle emozioni?

L’incipit di ambienti vuoti e muti e il ritrovamento, dopo un faticoso e irruento ingresso, del corpo di una donna anziana cosparso di fiori bloccano il respiro e il pensiero. Sono da subito certa che, anche questa volta, Haneke non mi deluderà, ma, per farlo, deve inevitabilmente farmi soffrire. Un flashback e ci porta in un teatro, una scena costruita, abbellita, raffinata, borghese ed elegante e da un palco vediamo un pubblico che parla e, piano piano, su invito di una voce esterna, il brusio si affievolisce e si arresta. Siamo tutti invitati a fare silenzio, a spegnere il telefono. Il resto del mondo non esiste più.

Ed è subito amore: tutti guardano verso il palco, ma George guarda Anne (Emanuelle Riva). Si gira e le rivolge il suo sguardo, come per controllare che resti lì con lui. Siamo accompagnati nella storia da Schubert. Improvviso. Ed è già tutto detto.

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George e Anne sembrano due fidanzatini, li seguiamo fuori dal teatro, sui mezzi pubblici finché non arrivano a casa e vediamo che la serratura è stata scassinata. Nulla è stato preso, ma è impossibile non provare un senso pervasivo di inquietudine che aumenta quando Anne si sveglia nel cuore della notte. Qualcosa di improvviso è successo, ma non sappiamo cosa. La paura che cresce e che si concretizzerà a breve è per qualcosa che non vediamo e che non sentiamo, ma che arriva e si manifesta in tutta la sua potenza distruttiva. L’orrore muto dell’assenza di Anne è pietrificante. George le bagna il viso con un panno bagnato, lascia il rubinetto aperto e si avvia claudicante verso la camera da letto, per vestirsi e cercare aiuto. E poi il silenzio. L’acqua si chiude, George torna in cucina, seguito da una ripresa ravvicinata attraverso la quale ci muoviamo con lui e, anche noi, non sappiamo cosa aspettarci. L’atmosfera è inquietante e ci fa presagire il peggio, ma, quando arriviamo nella cucina dai colori fiamminghi, Anne sembra quella di pochi minuti prima, completamente ignara di ciò che è successo. Per un attimo possiamo sperare di essere tornati alla normalità, che tutto sia di nuovo come prima. Anne è incredula di fronte al racconto del marito, ma il tentativo di negare ciò che è accaduto crolla di fronte al tè che, versato da Anne, riempie il piattino ma non la tazza e, improvvisamente, di nuovo, un brusco stacco ci porta fino alla notte. Ogni stanza della casa viene inquadrata in tutta la sua vuota immanenza. È buio e non c’è nessuno. E così Haneke ci ha già detto tutto.

Fa la sua comparsa in scena la figlia della coppia, Eva (Isabelle Huppert), un personaggio che, a tratti, si rivela agghiacciante e mostruosamente borghese: una musicista di successo che è spesso all’estero e che, per la maggior parte della conversazione, non fa che parlare di sé e del suo travagliato matrimonio. Mesi prima il marito l’aveva tradita con un’altra musicista, ma quello da cui Eva è infastidita «è che tutti lo sappiano». Lo sproloquio dura alcuni minuti e, solo dopo, chiede come stia sua madre. Qui Haneke ci racconta, in breve, un altro matrimonio che si sta disfando, ma che desta preoccupazione solo quanto è la facciata della convenzione a sgretolarsi.

Al ritorno dall’ospedale, dove è stata operata per evitare di mettere a rischio la sua vita, Anne è portata in casa su una sedia a rotelle. La vediamo nel suo profilo sinistro, finché il marito non la porta in sala e lei si toglie la coperta che teneva addosso come fosse una mantella. Quello che si scopre è un braccio rattrappito e immobile: a seguito dell’operazione Anne è diventata emiplegica, perciò non può muovere la metà destra del suo corpo. C’è sempre qualcosa che non sappiamo e ancora non vediamo e, il più delle volte, non è niente di buono.

Quello che segue è uno dei momenti cinematografici che più ho amato, perché Anne vuole stare sulla poltrona, non vuole restare seduta sulla sedia a rotelle e si fa aiutare dal marito, che a fatica la trasporta in quello che sembra un lungo, affettuoso abbraccio. È un abbraccio.

Anne affronta la sua condizione con grande dignità e a testa alta, come quando, con una sola mano, si mette da sola gli occhiali, ma, a poco a poco, quella che sentiamo crescere dentro di noi è la paura, l’inquietudine e siamo posti di fronte all’ineluttabilità della morte, con tutto ciò che essa comporta. Quando George, dopo essere stato al funerale di un conoscente, racconta alla moglie di quanto sia stato bizzarro, lei mantiene un’espressione seria e fissa e, mentre lui ci porta all’interno di una situazione tragicomica, lei immagina il suo futuro e sa cosa la aspetta. Vorrebbe poter porre fine al suo dolore, ma George continua a dirle che sta migliorando, che non potrebbe mai lasciarla andare, quando lei gli fa capire che vorrebbe solo morire.

D’ora in avanti il rumore della sofferenza si fa sempre più assordante ed è fatto di silenzi, di vuoti. George inizia a irrigidirsi, anche quando la sposta da una sedia all’altra in quei lunghi, affaticati passi di una terribile danza, ma l’amore è ancora molto più forte del dolore e continua ad accudire la moglie con devozione. Ma quello che Haneke ci mostra è un mondo – un microcosmo – popolato da esseri umani e nessuno è monodimensionale, nessuno ha un solo lato e, tantomeno, nessuno può costringersi a provare un’unica emozione. Quante volte siamo stati animati da emozioni contrastanti nei confronti di uno stesso oggetto? Così, oltre all’ombra della morte, si fa strada anche qualcosa che non vogliamo vedere né accettare, qualcosa che ci prende alle spalle e ci ammutolisce, proprio come la mano fantasma che, nell’incubo di George, preme contro la sua bocca, mentre, in un fatiscente corridoio inondato d’acqua, cerca un intruso che non vede.

Come all’inizio del film uno sconosciuto ha tentato di forzare la serratura della loro casa, qualcos’altro è riuscito a introdursi nelle loro vite e, lentamente, a distruggerle, pezzo dopo pezzo. Haneke lavora sui vuoti, sui silenzi, su quello che non vediamo ma di cui non possiamo fare a meno di avvertire e notare la presenza, perché spesso è proprio ciò che non ha corpo a irrompere con maggior violenza nelle nostre vite.

amour-2Ma la scena più violenta è accompagnata da una meravigliosa melodia e vediamo Anne seduta al piano che sembra suonare, come faceva una volta. Ci accorgiamo subito che quello che stiamo vedendo è come un carillon che suona a vuoto e, presto, la musica viene bruscamente interrotta da George che, pur essendo un uomo così gentile, in questo si rivela mostruoso.Il silenzio che segue è brusco come il tonfo del corpo di Rebekah del Rio che cadeva, in Mullholland Drive, sul palco, mentre la voce continuava a cantare. Mi capita spesso, infatti, di notare delle somiglianze proprio nell’abissale differenza che contraddistingue due poetiche così speciali come quella di Lynch e Haneke, due registi che amo molto e che, nonostante filmicamente così agli antipodi – il rigore e il bizzarro – trovo estremamente concordanti nello scardinare le convenzioni e nello scrutare nell’abisso dell’animo umano.

Mostruosa è anche Eva, che per un tempo che appare interminabile elucubra sul mercato immobiliare, sui tassi di interesse e su una serie di questioni che, di fronte alla madre relegata a letto e incapace di dialogare, sono irrilevanti e non sono che un borghese e convenzionale schermo. E ancora una volta, è la mancanza di qualcosa a turbarci: Anne non può più esprimersi come faceva prima. Colpita da afasia, riesce a stento a parlare e, spesso, non dice ciò che vorrebbe.

Haneke inizia a mostrarci Anne dal lato emiplegico sempre più spesso, mentre, nella prima parte del film, la coppia era spesso rappresentata da sinistra mentre mangiava, leggeva il giornale, ascoltava la musica. Ormai la realtà è innegabile: Anne sta andando incontro a una morte lenta e dolorosa – lo straziante “mal, mal, mal” sarà anche un automatismo, ma è il monosillabo più eloquente del film e descrivere un’intera realtà – aggravata dalla mancanza di autonomia che la costringe ad avere delle infermiere per occuparsi di faccende così intime che, ci auguriamo, dovrebbero riguardare solo noi stessi. E qui appare un altro mostro, dall’aspetto umano, ma terribile: la seconda infermiera, che spazzola Anne come se fosse una bambola senza vita, che la costringe a guardarsi allo specchio anche quando lei gira la testa è terrificante e la sua insensibilità è tale da non riuscire nemmeno a riconoscere i suoi errori.

L’atmosfera, sempre più claustrofobica, è allentata solo in un fugace minuto durante il quale vengono inquadrati tutti i dipinti appesi alle pareti, le uniche immagini del mondo esterno che ci vengono mostrate. Il regista ci porta per mano verso una dolorosa fine, dove l’immanenza del corpo di Anne viene sostituita dai sussulti e dagli spasmi mentre George preme il cuscino sul suo volto in quello che è un gesto disperato. Di amore e di disperazione. Il vuoto lasciato da Anne lascia spazio solo alla sofferenza, che vediamo nella tristissima scena in cui George, dopo aver catturato il piccione errabondo che era solito entrare dentro la sua casa, lo stringe al petto e lo accarezza (ecco, questa è una delle scene che, a raccontarla, mi fa soffocare nelle lacrime), anche se poi decide di lasciarlo andare. L’orrore della morte e dell’improvviso gesto di George, si accompagna a questa tenerezza e all’ultima manifestazione, la più spiazzante, di amore e dolcezza: l’uomo compra molti mazzi di fiori e taglia con cura tutti i gambi e poi sigilla la stanza di Anne, ormai è una tomba. L’ultimo atto di totale umanità prima di annientarsi e sparire nel nulla.

Alcuni dicono che Haneke è spietato. Un entomologo che con chirurgica precisione mostra il frammentarsi delle convenzioni e dell’essere umano. E in parte è così, ma, allo stesso tempo, è un vero empatico: Haneke ci mette di fronte alle cose e alle persone per come sono davvero. Sfaccettate, a volte distorte, molteplici e anche l’amore non sfugge a questa logica: anche l’amore non è univoco, non è uniforme e ammette errori. George è un mostro o è gentile? È entrambi.

Il grande pregio di Michael Haneke è quello di creare dei mondi e di mettere in scena delle realtà per cui, alla fine del film, non faccio che chiedermi: che tipo di persona voglio essere?

2 pensieri su “Amour

  1. Scrivi in modo splendido, la descrizione e il commento a questa opera di Haneke mi hanno fatto provare delle emozioni, ma sopratutto mi hai fatto venire voglia di ad andare a vedere questo film che da come lo descrivi deve essere una vera opera d’arte.
    Grazie

    • Grazie mille, la mia intenzione era proprio quella di condividere l’esperienza così speciale che ho avuto nel vedere questo (e altri) incredibile capolavoro. Grazie ancora e buona visione

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