Il violinista del diavolo

Quando si fa un film sulla musica si corre il rischio di commettere un errore fondamentale: un attore, generalmente, non è un musicista e questo porta con sé una serie di conseguenze. Soprattutto si corre il rischio che quello che la musica significa per il musicista non valichi le barriere dello schermo (fatta eccezione per alcune rare ed eccezionali interpretazioni, come quella di Philip Seymour Hoffman in Una fragile armonia e l’indimenticabile Jeoffrey Rush di Shine). Grazie a dio Bernard Rose non ha commesso questo errore. David Garrett è un perfetto violinista e un perfetto Paganini, perché, come lui, ha creato qualcosa di rivoluzionario e ha dato un nuovo senso al suono di uno strumento che è raro non far «belare» in strazianti e lacrimose modalità. Quando guardi delle belle immagini e senti delle belle musiche, secondo uno studio del 2011 di Semir Zeki e Tomohiro Ishizu, si attiva una parte della nostra corteccia prefrontale (precisamente la corteccia orbitofrontale mediale) molto precisa, che è stata chiamata A1. La mia A1, nella mia corteccia orbitofrontale mediale, è stata attivata più che mai da questo film, dove una colonna sonora tra le migliori (e probabilmente la migliore a pari merito con quella del nuovo film di Jim Jarmush tra le uscite del 2014) rappresentano i principali punti di forza. Insomma, Il violinista del diavolo è un film che merita di essere visto (non è una «tamarrata», come qualcuno ha insinuato: tu che leggi, sai chi sei e non hai più scuse per non vedere questo film!).

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Niccolò Paganini non incontrò da subito il favore del pubblico e la sequenza iniziale, in cui, al termine di uno spettacolo teatrale suona una delle sue composizioni e non viene degnato di uno sguardo (finché non lo costringono a suonare una terrificante lagna popolare) è emblematica della mentalità ristretta e ottusa che, non sapendo come rispondere alla genialità, la ignora, o peggio. Peggio perché l’inspiegabile talento di Paganini, che componeva e suonava opere che quasi nessuno sarebbe stato in grado di emulare, creò un alone di oscurità attorno alla figura del musicista: si diceva che avesse venduto l’anima al diavolo per poter suonare a quel modo e lo stile di vita non irreprensibile che conduceva costituiva un ulteriore pretesto per criticarlo. Il mefistofelico Urbani, un uomo che offre a Paganini, in cambio della sua firma su un complesso contratto che sembra non richiedere nulla all’artista, «non in questa vita», imprime una veloce ed importante svolta alla carriera del compositore. L’ambivalenza rispetto alla leggenda riguardante il patto con il diavolo viene giocata tutta sull’interpretazione che di Urbani fa Jared Harris, molto bravo sotto questo punto di vista, anche se il pizzetto biforcuto è un po’ troppo didascalico rispetto alla «mefiticità» del personaggio (e mi rievoca anche un pochino la lingua di Gene Simmons, con qualche brivido di orrore).

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Il film è narrativamente strutturato, racconta l’ascesa musicale e il declino fisico del musicista, ma la trama è solo il primo livello di lettura del film, perché il filo conduttore è l’amore per la musica in quanto unica modalità espressiva possibile per chi, come lui, non voleva o non riusciva a farsi conoscere altrimenti. Questa è una verità fin da subito deducibile, ma viene sviscerata quando Paganini si innamora di Charlotte, figlia dell’impresario britannico che lo porta a suonare a Londra. Il rapporto tra i due è inizialmente arido e conflittuale e non perché, come ha suggerito l’orribile individuo seduto accanto a me al cinema (che fumava una sigaretta-pennarello elettronica emettendo un odioso rumore e un ancora più terribile odore – tipo pelo di cane bagnato, ovvero: non fumate sigarette elettroniche, possibilmente mai e poi mai, ma, soprattutto, non il sala, grazie) «chi disprezza compra» (riuscite a immaginare quanto potesse essere fastidioso?), ma perché l’immagine che il mondo aveva di Paganini, caricata ancor più da Urbani, era quella di un individuo superficiale al punto da essere detestabile. E lui non faceva nulla per disconfermare questa impressione, che era solo tale, perché chi non ha nulla da dire, da comunicare, di certo non compone cose come La campanella o Io ti penso amore, che riterrà di poter essere cantata solo da Charlotte.

Paganini-e-Charlotte

Il rapporto tra Paganini e Charlotte va al di là dell’essere una semplice storia d’amore: Charlotte rappresenta la Musica in tutta la sua purezza e la sua integrità, qualcosa che Paganini aveva fino ad allora trovato solo nella sua musica, ma mai nel mondo. Perciò, anche se tutto quello che Paganini dice o fa, inizialmente, appare moderatamente sregolato, insolente, narcisistico, nemmeno per un secondo lo spettatore avverte fastidio nei confronti di questo personaggio e, in questo, David Garrett è bravissimo a far passare quanto lo stile di vita non fosse che un aspetto irrisorio di Paganini. E tutte le critiche muoiono non appena il musicista inizia a suonare il suo violino: non è semplice musica, è una comunicazione a tutto tondo, è la più grande forma di amore che si possa immaginare.

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