Monuments Men

Una via di mezzo tra l’A-team, un drappello di secchioni (in senso positivo, anche se un’accezione negativa, per me, non esiste), Indiana Jones e, soprattutto, un senso di appartenenza al genere umano di una profondità per nulla scontata e banale. Ecco i Monuments Men, una piccola squadra realmente esistita di uomini, non di soldati, che affrontò la Seconda Guerra Mondiale con un addestramento militare base, ma con lo stesso coraggio di chi faceva parte dell’esercito di diritto.

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I Monuments Men sono sette uomini, ognuno dotato di abilità differenti, ma tutti legati all’arte. Durante la Seconda Guerra Mondiale, tra lo sbarco in Normandia e la battaglia delle Ardenne, tra i campi di battaglia e le macerie degli edifici distrutti dai bombardamenti, questa squadra ha messo tutte le sue conoscenze, il suo coraggio e, in alcuni casi, la vita, allo scopo, nobilissimo, di salvare il nostro patrimonio artistico. Non solo al fine di preservarne la bellezza, ma, soprattutto, per salvare ciò che ci rende umani e che testimonia la nostra esistenza. Se non ci fossero le opere d’arte a raccontare le storie e quelle dei loro autori, è come se non fossero mai esistiti. Come se tutto il nostro passato fosse cancellato. Come se la parte più bella e nobile dell’umanità fosse stata spazzata via come la guerra ha fatto con edifici storici come la cattedrale di Coventry, gettando nella disperazione la Gran Bretagna al punto tale da rendere il termine “coventrize” esemplificativo della distruzione più annichilente.

L’apertura sul Polittico della cattedrale di Gand in Belgio (o Polittico dell’agnello mistico di Jan van Eyck, uno dei più bravi pittori fiamminghi della storia dell’arte) che viene fatto a pezzi e portato via è come assistere a una tortura: Eva, Adamo, l’agnello e tutti gli altri pannelli vengono, uno alla volta, strappati dalla struttura portante e trascinati via, pronti a diventare parte di un enorme museo, la Gemäldegalerie di Hitler. Un uomo che accumula morte, distruzione, oro (in tutte le forme, anche le peggiori immaginabili, come la scena dei denti ci ricorda dolorosamente) e opere d’arte. Il film ruota attorno alla necessità di fare giustizia attraverso l’arte, riportandola ai legittimi proprietari. Oltre al polittico di Gand, l’arte è rappresentata da un’opera in particolare, la Madonna di Bruges di Michelangelo, la cui protezione richiederà un grandissimo sacrificio.

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George Clooney mette assieme una squadra eccezionale, sia come regista, sia come personaggio filmico. La scelta di un cast di alto livello ha la sua forza soprattutto nella presenza di personaggi del calibro di John Goodman e Bill Murray, capaci, anche in virtù del tipo di ruoli interpretati nel corso della loro lunga carriera, di passare dalla spiritosaggine più spiccata e mai caricaturale, che contraddistingue buona parte del film, a una serietà abbacinante che passa attraverso lo sguardo e il movimento.

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La recitazione a tutto tondo del cast ha proprio in questa flessibilità la sua forza: siamo in una storia ambientata in tempo di guerra, abbiamo un atteggiamento positivo perché stiamo recuperando il patrimonio artistico dell’umanità e abbiamo in passato comune e ci piace sdrammatizzare, ma la guerra è orrenda. E questo George Clooney ce lo dice senza essere pesante e senza indulgere su brutture innecessarie ai fini del film. Ma ce lo dice con la delicatezza della voce della figlia del personaggio di Bill Murray registrata per gli auguri di Natale. In quel momento è impossibile per i personaggi non pensare (e noi con loro): sono in guerra e potrei benissimo non fare ritorno a casa. Ma l’arte è ciò di quanto più bello e aulico l’uomo sia stato in grado di creare e proteggerla in modo che anche i nostri nipoti e i nipoti dei nostri possano fruirne è stato un sacrificio necessario a proteggere la parte migliore dell’umanità.

 

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