Maps to the Stars

Rieccoci a parlare di Cronenberg. O meglio, eccomi a scrivere di Cronenberg per la prima volta (in pubblico). Poco meno di due anni fa uscivo dal cinema Massimo di Torino, arrampicata su un paio di tacchi alti e soddisfatta per aver fatto lo sforzo per Cronenberg – lui merita. Per aver affrontato i miei pregiudizi su Vampirello (Pattinson) e aver guardato Cosmopolis. Perché ne sono rimasta stregata, affascinata (dal film). Ci penso ancora, ogni tanto, a Cosmopolis. Mi ha così colpita che non sapevo nemmeno cosa dire a riguardo (ma ora lo so e presto apparirà una lunga, interminabile sequela di sviolinate a riguardo). Tutto questo per dire, insomma, che Cronenberg ne vale sempre la pena. Sempre. Anche quando sbaglia, non fa mai pietà.

680x478Maps to the Stars è un film enigmatico, dotato di un’estetica completamente diversa rispetto a quella Cronenberghiana – e questo è uno dei motivi per cui ho vissuto il film con una certa distanza, un distacco dovuto alla difficoltà a entrare in empatia con esso (spesso mi sono trovata a pensare: questo mi ricorda da morire Passion e Le due sorelle e il Fantasma del palcoscenico. De Palma, insomma. E dato che Cronenberg non è affatto un regista qualunque, ma un Autore, la cosa non è proprio meravigliosa). Questo film trasuda Hollywood da ogni fotogramma: l’ambiente che fa da background alla vicenda è, in realtà, protagonista assoluto della storia e non avrebbe potuto rivestire un ruolo così importante, al punto da diventare un vero e proprio personaggio, se, ancora una volta, Cronenberg ci avesse riproposto le tinte cupe e slavate alla Delacroix, le carni cadenti, i volti con le occhiaie, gli sguardi fissi da qualche parte, là, nel vuoto, dove noi non possiamo arrivare. Invece, in quest’ultima opera del regista canadese, i corpi sono belli, quasi perfetti, i volti simmetrici, truccati fin nei minimi dettagli, gli abiti firmati, le auto scintillanti, il sole splendente sulla pelle perfetta e levigata dei personaggi. È questa la patina di perfezione – perché è solo una patina e sotto c’è lo sporco più raccapricciante, come Cronenberg ogni volta ci mostra – che Agatha squarcia non appena arriva a Los Angeles. Bella, ma reale. E bizzarra. Ma, soprattutto, dotata di un entusiasmo che lo snobismo Hollywoodiano sembra non consentire e di una spontaneità che nel paradiso dei sorrisi tirati e della pelle scoperta risultano dissonanti. Dove tutti nascondono i loro difetti fisici e lasciano crescere a dismisura quelli interiori, Agatha tenta senza troppo impegno di nascondere le sue cicatrici da ustioni, mentre occulta un segreto ben più grande: le cicatrici sono il frutto di un incendio che lei stessa ha appiccato, da ragazzina e in cui ha quasi ucciso il fratello minore. Che ora è una star del cinema e si sta velocemente trasformando in un predatore: disintossicato a tredici anni, il suo unico scopo sembra guadagnarsi le attenzioni del pubblico e grossi guadagni, anche se ci dice, a un certo punto, che gli hanno offerto un compenso che sua madre non poteva rifiutare. È mentre una star di mezza età, Havana Segrand (Julianne Moore: ma quanto è brava? Tanto riesce a fare compassione in certi film, tanto è terribilmente odiosa in altri, vedi qui, ad esempio – e infatti si è presa la Palme d’Or) tenta di ottenere nuove attenzioni millantando abusi subiti da parte della madre – una grande attrice defunta – che Agatha entra a far parte di un mondo in cui l’essere umano non ha scampo e finisce per trasformarsi in mostro. Emblematico di questa transizione è il personaggio di Jerome (Pattinson, aka Vampirello, che non riesce mai e poi mai a essere simpatico), che inizia con grandi speranze e un’innocenza disarmante e finisce per diventare oggetto delle sue stesse ossessioni. Ma lo scopo di Agatha non è quello di diventare famosa, perfetta, ricca. Il suo scopo è quello di fare ammenda e, sebbene nel corso del film il suo personaggio precipiti in una spirale di disperazione e tormento, fino al punto da tornare a essere pericolosa, lei resta l’unica, tra tutti, ad avere intenzioni sincere. Nel suo essere così contorta e disturbata (come la stupenda inquadratura che ritrae una doppia Agatha, quasi spezzata in due dallo specchio dopo aver gettato le medicine), Agatha è l’unico personaggio innocente e brilla di luce propria. È lei l’unica vera stella, che guida lo spettatore in un doloroso percorso e verso un finale di una bellezza atroce, in cui la morte è l’unica possibilità.

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Maps to the stars è sicuramente un buon film, eppure ho la sensazione che manchi qualcosa e, a differenza di quello che mi accade di solito (con Cosmpolis, per esempio), non sento il bisogno di rivederlo al più presto, per cogliere altri dettagli. La ricchezza della trama diventa quasi sovrabbondanza e, in tutta questa opulenza che non è solo visiva, ma anche concettuale, il significato più viscerale rischia di restare in sordina. In ogni caso il risultato è nettamente positivo e Cronenberg dipinge un ritratto impietoso della realtà Hollywoodiana, stigmatizzato nei dialoghi vuoti e confusi dei teenager alle feste, dalla figura del terapeuta (John Cusack, che rasenta la perfezione come cattivo assoluto di questo film) le cui frasi sono imbevute di una falsa spiritualità e le cui azioni sono di un’ipocrisia disgustosa (un po’ come il papà di Benny in Benny’s Video – che è un capolavoro assoluto e va visto, per forza) e dal personaggio di Havana, apparentemente vuota e vanesia, che si rivela, però, essere di una crudeltà impressionante – il balletto dopo aver appreso della morte del bambino dell’attrice che aveva avuto la parte che lei desiderava è agghiacciante (ero incollata alla poltrona pensavo: oddio, no, per favore). Un personaggio che appare e appare e appare ancora, fasciata in un Hervé Leger o in abiti prendisole da quindicenne e, poi, è di una volgarità abbacinante mentre pretende di parlare dei suoi problemi intestinali e di faccende personali con Agatha mentre sta seduta sul water. Sono questi piccoli dettagli, cui soggiace una cura straordinaria (un po’ come quegli scrittori che ti dicono tutto sulla psicologia del personaggio senza descriverla pedissequamente, Cronenberg lascia parlare le immagini che, come perifrasi, girando attorno alla persona, la scolpiscono a poco a poco), ad animare quello che è un film che lascia senza parole (e con le idee confuse) per poi agganciare lo spettatore con il tempo. Pur non avendo la forza di Cosmopolis (che è un po’ un Amarcord, un tornare a casa in cui Cronenberg ripercorre i luoghi familiari – di tanto in tanto ci si ritrova a dire: questa sequenza mi ricorda tantissimo eXistenZ!, eccetera eccetera), Maps to the Stars ha un’intensità e una poesia che trascendono la vicenda narrativa (talmente ricca di trame e sottotrame da rischiare di risultare banale) e che rendono il film una creatura che è per metà incubo e per metà magia.

3 pensieri su “Maps to the Stars

  1. Recensione fotocopia per sensazioni, pregi e difetti alla mia ma la tua è più completa e meglio scritta. Fossi in te avrei speso due parole in più per il fratellino, l’ho trovato all’inizio insopportabile ma poi piano piano mi è sembrato il personaggio migliore, quello meglio scritto e più complesso (e dotato di una profonda e inaspettata intelligenza e presa di coscienza). Sono contento che anche te hai visto l’arrivo di Agatha come quello che fa cadere il barattolo, non era scontata come lettura, è proprio quella la sua funzione.
    D’accordo su tutto, a parte Cusack che digerisco poco come viso 🙂

    • Per John Cusack ho avuto una cotta assurda per qualcosa come 10 anni (ma forse è ancora in corso) dopo la di lui apparizione in Non per soldi ma per amore (comunque ero giovane e quindi è un cineerrore di gioventù) con la maglietta dei Clash! Di qui la mia fascinazione, mi sa.
      Il fratellino si rivela di una purezza inaspettata e l’ho apprezzato moltissimo, avrei voluto rivedere il film e spenderci più tempo, in effetti, comunque sono d’accordissimo.
      Agatha è magica, non so che altro dire.
      Ora corro a leggere la tua!

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