In ordine di sparizione

Nils Dickman, cittadino dell’anno di un piccolo villaggio, è un marito, un padre ed è stimato dalla comunità locale per il suo contributo a tenere le strade accessibili con il suo spazzaneve – un angelo della neve, praticamente, uno di quelli con la faccia così da buono e il sorriso mite che sembra nato solo per fare del bene agli altri, ma in modo molto modesto, piccolo e disinteressato. Quando Ingvar, il figlio di Nils, viene trovato morto su una panchina della stazione e il suo caso viene archiviato come un’overdose di cui non importa a nessuno, Nils decide di cercare la verità, ma, soprattutto, di cercare vendetta – e l’angelo della neve diventa angelo della morte. Fin dalle prime inquadrature sappiamo che la sua sarà una vendetta impietosa e feroce e che non gli importa di come andrà a finire. Nils Dickman, dopo aver perso il figlio, ha perso la prospettiva di una vita normale, perde la moglie, che lo lascia con un biglietto bianco e spoglio. Bianco come la neve che ricopre ogni sordido angolo di una Norvegia ritratta in tutte le sue contraddizioni, i suoi difetti, dove il Welfare permette a tutti di vivere bene e dove il contrappeso per questo benessere è il gelo, un’osservazione tagliente che Hans Petter Molland, il regista, fa attraverso una bizzarra conversazione tra due dei tirapiedi del Conte, un criminale spietato, ma anche un po’ cretino e, soprattutto, vegano (io, da vegana, mi diverto tantissimo a vedere la lista di personaggi abbietti che, nei film o nei libri, sono vegani: bisognerebbe parlarne con Johnatan Safran Foer!).

In ordine di sparizione ha, inoltre, un ritmo molto serrato, scandito con armonia da ciascuno degli omicidi. Sono proprio queste morti e le schermate nere che fanno da epitaffio a dividere il film in sequenze, un meccanismo di punteggiatura della sequenza di eventi che ho trovato molto intelligente e che alza ulterioremente il livello di questa opera cinematografica. Non stiamo solo assistendo a una commedia nera: c’è anche il dramma (la perdita di un figlio), il sarcasmo (o il Welfare o il sole), la scansione temporale originale e brillante e un personaggio che potrebbe far funzionare da solo l’intero film. Stellan Skarsgaard è ieratico, un monito, una sentenza di morte dalle lunghe gambe (che sembrano non avere articolazioni e proprio in questa camminata quasi robotica risiede gran parte della forza spietata ma anche goffa del personaggio). Lo sguardo dolce e pacifico con cui lo conosciamo nei primi conqie minuti del film diventa, improvvisamente, lancinante: gli occhi si trasformano in fessure attraverso cui non riesce a vedere nulla che non sia la vendetta.

Sebbene Stellan Skarsgaard potrebbe tranquillamente far funzionare il film da solo, la presenza di Bruno Ganz e Pal Sverre Hagen (il Conte) arricchisce ulteriormente l’impianto narrativo. Se Bruno Ganz ha un aspetto solenne e lo sguardo fiero e truce, smorzato dal cappello con tanto di capelli posticci appiattiti sulla fronte, Pal Sverre Hagen, che interpreta il Conte, rappresenta il personaggio odioso per antonomasia, ma sa rendersi ridicolo oltre ogni limite, pur restando all’interno di una cornice fatta di una comicità furba e sottile. Da non respirare per le risate la scena in cui, seduto in una poltrona a forma di maschera, litiga con la ex moglie e si gira a guardarla uscire attraverso i buchi degli occhi della poltrona con uno scatto da bambino iracondo.

Come primo merito, questo film ha un’estetica fenomenale: il bianco della neve, che sembra un personaggio a sé stante, dotata di vita propria, viene esaltato da svariate angolazioni. Le onde di polvere nevosa che si alza al passare dello spazzaneve sono coreografiche e fanno da idilliaca cornice a una vicenda dove la brutalità è il secondo protagonista. Una brutalità duplice: quella di Nils è la violenza tarantiniana che molti di noi adorano (selvaggiamente, oserei dire), perché è catartica (chi non vorrebbe scalpare nazi, ripagare con la stessa moneta i negrieri, vendicare Beatrix Kiddo e, qui, il proprio figlio sterminando una banda di criminali?!): questi registi mettono in scena una giustizia che non possiamo agire – perché, se lo facessimo, diventeremmo come i criminali in questione, come accenna, con una nota di saggezza che il padre non è assolutamente in grado di cogliere, il figlio del Conte – e, perciò, ci rendono partecipi della vicenda, che ha, però, una dose di humor nero tale da renderci, allo stesso tempo, impossibile immedesimarci completamente. Parteggiamo per qualcuno in una storia che non ci appartiene.