Horror: a love story (vol.1)

Per amore della conoscenza, nel corso degli ultimi anni, il mio cervello è stato sottoposto a un’inestimabile quantità di ore di film e, ogni volta, è sempre un’esperienza mistica, un tuffo al cuore che raggiunge il suo apice quando si è in sala e, improvvisamente, una sequenza o anche una semplice inquadratura, fa vibrare una delle corde che stanno tese tra stomaco e cuore. È un’emozione che dà vita a sentimenti indescrivibili, che si estendono dall’ammirazione alla contemplazione all’estasi, o forse è proprio amore allo stato puro. O almeno lo è per me.

Il cinema horror, come molto spesso accade per i film di genere, non è pensato per fare questo effetto, ma per regalare un altro tipo di tuffo al cuore, per far vibrare di altre emozioni il nostro stomaco. Lo spavento. E funziona sempre, anche se sappiamo che succederà, anche se possediamo tutti gli indizi per immaginare quando avremo paura. Mi riferisco ovviamente a un genere horror che ha le sue radici negli anni Venti del Novecento e, perlopiù, fatta eccezione per qualche raro capolavoro contemporaneo, vede la sua fine a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Non che le varie saghe horror non siano state un importante fenomeno culturale di massa e tutto il resto, ma non hanno quello che serve per far parte di quel voluminoso romanzo d’amore in cui io e l’horror ci siamo conosciuti.

gabinetedrcaligari1.Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene è un capolavoro horror del 1919, quando il cinema era muto e, per parlare, usava mezzi diversi dal linguaggio: un’espressività esagerata e sovraccarica, scenografie deformate e rese ancora più stranianti dalle luci e dal contrasto. La sensazione di piatta distorsione che faceva dei film dell’espressionismo tedesco un’esperienza così inquietante si deve all’effetto Schüffman, grazie al quale terrificanti e fantasiosi luoghi immaginari potevano diventare realtà. In un setting bidimensionale che è un incubo a tutti gli effetti, una storia intricata profondamente radicata nella dimensione onirica, si snodano le vicende di un gruppo di persone tra le quali spicca un sonnambulo di nome Cesare che sembra avere la capacità di predire il futuro. Mostrato al pubblico dal dottor Caligari, che sembra più un imbonitore che un dottore, gli vengono fatte domande sul futuro ed ecco che il furbo di turno chiede fino a quando vivrà. Ovviamente quando il sonnambulo gli risponde che vivrà fino al mattino successivo la sua reazione non è esattamente di contenuto stupore. Da qui iniziano le rovinose vicende del giovane che finiscono per risolversi in modo del tutto imprevedibile (guardate questo film!). L’influenza di questo film è evidente nel Batman di Tim Burton e si estende anche ad altri campi artistici, come quello musicale: Rob Zombie si è infatti ampiamente ispirato a quest’opera per il video della canzone Living dead girl, dove il “fenomeno” mostrato dallo stravagante personaggio è interpretato dalla moglie dell’artista. Nello stesso periodo altri film dello stesso genere, come Lo Studente di Praga e Il gabinetto delle figure di cera si basano su trame misteriose narrate tramite l’allucinazione. Un’altra storia raccontata come un’allucinazione è quella di Nosferatu, celebre opera di Murnau (1922), il quale unì espressionismo e kammerspiel-film in una delle più straordinarie rappresentazioni di quello che è tra i personaggi più messi in scena della storia del cinema. La spettrale città ricca di sfumature, i movimenti lentissimi seguiti con una vicinanza quasi morbosa e la profondità campo rendono questo film qualcosa di terribilmente speciale, perché quello che ci mostra è uno sguardo.

Islandoflostsouls2.Il mio primo horror sonoro è stato Island of the lost souls, 1932, di recente rivisto grazie a un magnifico restauro operato sulla pellicola. Sebbene il film non rientri pienamente nei canoni del genere, gli esseri chimerici che popolano l’isola e le atmosfere suggestive e inquietanti rendono la pellicola meritevole di attenzione, soprattutto per il contenuto per nulla scontato riguardo alla dignità e all’umanità che, anche nella risoluzione del racconto – tratto dall’omonima opera del geniale H.G. Wells – , trovano un ruolo di primo piano e competono per attualità con molti film di genere contemporanei (che, però, non possono vantare un giovane Charles Laughton nel cast!).

 letestamen3. Il testamento del mostro (Le testament du docteur Cordelier) è un’opera del 1959 che ho conosciuto solo tardivamente. Un paio di natali fa, mentre pranzavo con alcuni dei miei zii coevi al lavoro di Renoir, una di loro iniziò a parlare di quanto, quando era ragazza, rimase terrorizzata da un film in cui un personaggio chiamato Opale girava armato di bastone e, con fare dinoccolato, si aggirava per la città uccidendo persone di ogni età e genere. La sua paura era poi stata fomentata dal fratello minore, il quale strisciava nelle tenebre e si nascondeva dietro le porte per poi saltare fuori agitando un bastone e spaventandola a morte. Non appena sono tornata a casa mi sono dannata per cercare un film in cui un certo Opale se ne andava in giro, compiendo una mattanza armato di bastone. Trovare il proprietario intellettuale dell’opera non fu particolarmente difficile e decisi di guardare il film. Liberamente tratto dal capolavoro di Stevenson – The strange case of Doctor Jekyll and Mr. Hyde -, Il testamento del mostro è sicuramente una pellicola significativa, in cui Jean Louis Barrault si trasforma, da rispettabile medico, in una creatura violenta e assetata di sangue: la prima vittima, che gli sfugge per un soffio, sarebbe stata una bambina. Il film è un crescendo di violenza, soprattutto psicologica e, man mano che le vittime aumentano, la creatura prende il sopravvento sull’uomo, portandoci verso il finale che, grazie al romanzo originale, ormai tutti conosciamo. Purtroppo non sono rimasta traumatizzata a dovere, perché, nonostante la serietà della pellicola, continuava a risuonare nella mia memoria lo spettacolare racconto fatto da mia zia e, impietosa verso le protesi rudimentali usate per truccare l’attore, ravvisavo una certa somiglianza tra Monsieur Opale e una versione malefica di Gian Burrasca. Esperienze personali a-cinematografiche a parte, questo film sa come mettere in scena l’ampio spettro di contraddizioni riscontrabili nella psiche dell’essere umano: il bisogno di tendere al miglioramento, ma, allo stesso tempo, una inspiegabile necessità del male coesistono all’interno di una stessa persona e Renoir, anche nel distaccarsi dal romanzo a cui si ispira, riesce a mostrare ambedue i lati con estrema profondità e in modo per nulla scontato o caricaturale (che, permettetemi, data la natura poco sobria del personaggio di Hyde/Opale, non è un’impresa facile).

 600full-rosemarys-baby-screenshot4. Non aprite quella culla! E, mentre in America si agitava la rivoluzione del ’68, una rivoluzione avveniva nel cinema horror: Roman Polanski, con l’eternamente terrificante Rosemary’s Baby, ci spaventava a morte andando a scavare proprio tra le paure più recondite che possono assalire una donna: l’idea che il proprio figlio possa diventare malvagio (se dovessi mai avere un figlio, so di per certo che in cima alla lista dei miei desideri per il suo futuro metterei la voce: che non diventi un serial killer). Beh, diciamo che il bimbetto di Rosemary ha ben più di qualche probabilità di diventare malvagio, essendo il figlio del diavolo. Quello che di geniale ha quest’opera, è che il bambino fa la sua comparsa in scena solo alla fine del film, quando Rosemary, vedendolo, esprime tutto il suo orrore. Fino ad allora la nostra paura cresce all’interno di una situazione claustrofobica popolata di personaggi all’apparenza amichevoli che si rivelano, nel corso della storia, creature raccapriccianti. Il terrore, insomma, è prodotto dalle inquietanti aspettative che Polanski crea nel corso della storia.

 movie_poster11865. Solo poco più avanti nel tempo, un altro imperdibile horror dal quale la mia classifica (che è biografica, emotiva e totalmente destrutturata, lo so) è A Venezia…un dicembre rosso shocking (Don’t look now), 1973. La regia di Nicolas Roeg rende questi 110’ svelti e piacevoli da passare in compagnia di un riccioluto Donald Sutherland che, con la sua statura e il fisico magrissimo, gli outfits anni Settanta e i capelli selvaggi era decisamente troppo identico a un mio caro amico, il che mi ha reso terribilmente difficile restare seria durante alcune scene del film. Iniziamo dal titolo: solitamente sono contraria alle traduzioni in italiano di nomi o titoli stranieri, ma, in questo caso, devo ammettere che la traduzione scelta è carica di carisma. Mi aspettavo di vedere fiotti di esseri umani accalcarsi in sala solo per l’appeal del titolo. Mi sbagliavo. In ogni caso, benché la traduzione italiana non abbia nulla a che vedere con il titolo originale, Don’t look now (che, effettivamente, è un consiglio che mi riservo il diritto di dare io stessa a chiunque senta di trovarsi in una situazione di natura horror), il rosso shocking a Venezia è ormai un must.  Il film inizia mostrandoci una bellissima casa, un giardino nel quale una bambina con un cappottino rosso acceso corre e il suo riflesso sul ciglio del laghetto lancia un triste presagio. Nella casa l’atmosfera è congelata, i genitori sembrano vivere un momento sospeso: la tavola è ancora in disordine, una sigaretta accesa si lascia fumare dal vento. Appare l’immagine di una chiesa in cui, di spalle, vediamo un corpicino vestito con un cappotto rosso: è una diapositiva su cui, all’improvviso, si rovescia dell’inchiostro color sangue che inizia a spargersi sulla superficie formando una macchia che prende rapidamente la forma di un feto. Da qui veniamo catapultati, con un montaggio a ritmo sostenuto, nel laghetto di fronte alla casa, dove Christine, la bambina, giace morta come una piccola Ofelia. Presto ci ritroviamo già a Venezia, circondati da architetture meravigliose e atmosfere suggestive e, sebbene la coppia sembri avere ritrovato un barlume di serenità, da qui in poi sarà tutto un gioco di specchi, riflessi, rimandi e presagi lanciati da personaggi lynchiani – ante litteram – e situazioni grottesche in quello che si risolve come un tragico capolavoro di genere. Guardatelo!

2 pensieri su “Horror: a love story (vol.1)

  1. Bello! Don’t Look Now è veramente un capolavoro, peraltro spesso ingiustamente omesso tra le pietre miliari del genere.

    • Sono felice che ti piaccia, secondo me è di una bellezza allucinante, certe scene come quelle iniziali nel ristorante con la cieca e i riflessi sugli specchi, o le atmosfere decadenti e inquietanti che riesce a creare allo stesso tempo me lo hanno reso indimenticabile e uno dei migliori horror che ho visto (restaurato) in sala. E Donald Sutherland è ai livelli splendidi di Piccoli Omicidi!

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