Umore da Dogville

dogvilleOggi è terrificante, insopportabile, demoralizzante. Ci sono giornate così, in cui un bel pianto sembra l’unica soluzione, se non fosse che tutto il cemento emotivo che abbiamo impiegato per tenere insieme i pezzi della nostra anima è diventato così solido da non permetterci di vacillare, nemmeno se lo volessimo. Certi giorni il mondo è ospitale quanto Dogville (Lars von Trier, 2003, una produzione che va dalla Danimarca agli Stati Uniti, comprendendo molti altri Paesi), che, in effetti, simbolo del mondo lo è: la scenografia che definire spoglia è un eufemismo altro non è che una tela bianca sulla quale dipingere le brutture di cui le persone, anche quelle in apparenza migliori, sono capaci. Ovunque tu vada, corri sempre il rischio di essere trafitto – il più delle volte “solo” emotivamente – dalla gente e, spesso, proprio da chi ami. Il paradosso che rende tutto questo possibile? Complesse distorsioni meta cognitive attraverso le quali gli altri arrivano a giustificare le proprie azioni come finalizzate a un bene superiore o al senso comune. Fingere di non vedere è fin troppo facile, anche quando gli orrori del mondo sono auto-evidenti – come attraverso le inesistenti pareti delle case di Dogville. In quest’opera di Lars von Trier, ad esempio, il personaggio di Tom rappresenta fin troppo bene chi, nel portare avanti la sua convinzione di agire per il bene supremo, maschera il peggiore dei tradimenti come una sofferta scelta attuata per la salvezza della comunità.

Anzi, a volte sembra quasi che, più siamo disponibili, trasparenti e gentili, più sia inevitabile finire vittima di punzecchiature, freddure, critiche. Come la povera Grace che, nella speranza di farsi accettare da una piccola e coesa comunità – metafora del mondo quanto della famiglia – dà il meglio di sé come essere umano, lavoratrice, amica. Più si dà, più gli altri prendono, adducendo giustificazioni per soffocare il senso di colpa.

Lars von Trier crudele pessimista? No. Piuttosto che spacciare falso ottimismo come fosse caramelle, preferisco un sano confronto con la realtà delle cose. Realtà resa ancora più cruda dalla scarna rappresentazione, che quasi obbliga la nostra immaginazione ad adattare la tragica storia di Grace e della cittadina di Dogville a esperienze di vita più vicine a noi. Il piccolo villaggio in cui tutti sanno ciò che succede ancora prima che accada è un concetto decisamente familiare e, da quando i social network hanno invaso la rete e non solo – estendendo le loro propaggini anche ai momenti di vita reale in cui esserci sarebbe più che sufficiente – tutto il mondo è un piccolo paese. E gli sguardi truci dopo un torto subito o immaginato? Le frecciate taglienti per rispondere a un gesto mal interpretato? Le cattiverie dette solo per il preciso gusto di ferire chi si ama? Questo è un dato di fatto. Lo ha detto anche Oscar Wilde.

Dogville è palcoscenico del mondo e della vita, delle emozioni base che si avvicendano in ognuno di noi, a volte insieme, spesso contrastanti, contraddittorie, paradossali. Eppure ci sono e, tipicamente, sono quelle che ci fanno, poi, sentire in colpa, vergognare. Queste emozioni sono mostrate con degli espressivi primi piani che ci avvicinano così tanto ai personaggi da farci sentire male. Quasi tre ore – centosettantotto minuti – con il cuore in gola, lo stomaco irrigidito, mentre vediamo le torture rivolte verso Grace aumentare in un climax di disgusto verso il genere umano stesso.

Il finale di Dogville è sconcertante e brillante e, anche questo, mi fa pensare. Chi li crea i mostri? Noi, con le nostre azioni. È vero, Grace può decidere se uscire dalla condizione di vittima lasciando Dogville e non guardando mai più indietro oppure mettendo in atto una terribile vendetta. Indovinate su quale opzione cade la sua scelta. Sterminare la popolazione della maligna cittadina è un soffio, facile facile. Lasciare in vita Mosè è geniale: chi potrà, altrimenti, portare avanti l’odio?

Quello che la protagonista arriva a subire è disumano e sconcertante, ma, la cosa peggiore, è che tutto parte da piccoli soprusi, leggere freddure, piccole cose, insomma, che appartengono alla vita di tutti i giorni. Se siamo già capaci di questi piccoli atti di crudeltà minima senza poi provare senso di colpa e senza sentire la necessità di riparare ciò che abbiamo fatto, allora cosa ci assicura di non essere capaci di qualcosa di peggio? Questo è il pensiero che mi tormenta durante i titoli di coda, vero e proprio cuore del film, a cui siamo stati preparati per tutto il tempo e a cui siamo giunti sfiniti. Una serie di immagini di un’America – e di un mondo – di derelitti, dimenticati, di ingiustizie, di morte e indifferenza. Per quanto mi riguarda, Lars von Trier è uno dei motivi di una lunga, lunghissima lista di ragioni per cui provare a essere il più umana possibile, solo per la gioia di potermi guardare nel metaforico specchio della mia anima.

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