The Wolf of Wall Street

Anzi che spendere tre ore della vostra vita in attività di improbabile utilità (andare in palestra, per esempio), correte immediatamente a vedere The Wolf of Wall Street – mi prodigherei in un elenco, ma credo che «improbabile utilità» racchiuda, sufficientemente, tutto e il contrario di tutto, vale a dire: andate a vedere questo film. Assolutamente. L’ultima opera di Scorsese è un film forte, incisivo, dal ritmo serrato, un film che aggancia lo spettatore e lo tiene incollato allo schermo grazie al montaggio quasi schizofrenico che caratterizza il magnifico stile di Scorsese che ogni volta fa sentire a casa gli amanti del suo cinema e grazie anche alla voce narrante di Leonardo DiCaprio – raccomando di vedere questo film in versione originale sottotitolata perché, in questo caso ancora più che in altri, la recitazione a tutto tondo di questo attore è fenomenale (anzi: glielo diamo quest’Oscar??).

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Jordan Belfort è – perché il protagonista della storia è un essere umano reale, anche se pare più che altro una creatura di fantasia, una fantasia quantomeno perversa – quello che, un po’ clinicamente, può essere definito un «sociopatico di successo». Uno di quelli che non si pongono particolari problemi a calpestare gli altri, le regole, le norme sociali eccetera, al fine di raggiungere i propri scopi e i propri obiettivi. Un modo di essere che se, nell’Italia di oggi è tacitamente ritenuto un modello da seguire – anche perché nell’eco di questa descrizione ci sono vaghe somiglianze con uomini di (criticabile) potere del nostro Paese -, rappresenta appieno il lato oscuro del Sogno Americano. Uno stile di vita che è ormai una creatura dotata di vita propria e che, nella storia del cinema, è stato indagato, esaminato e rappresentato sotto innumerevoli punti di vista e con diverse «lenti». Un singolo esempio risulta irrisorio rispetto alla sterminata filmografia a riguardo, perciò ne prendo uno di tutto rispetto: Americani (titolo originale Glengarry Glen Ross) sceneggiatura di David Mamet – per descrivere la grandezza di quest’uomo: Hollywood, Vermont; Ronin; Il postino suona sempre due volte –  e regia di James Foley, si è conquistato, proprio per questo motivo, un posto speciale nella lista dei miei cult.

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In pieno accordo con il percorso di formazione tipico di chi, dal nulla, vuole accedere al meraviglioso mondo cui solo il Sogno Americano può condurti, un ventiduenne, speranzoso e apparentemente ingenuo Jordan Belfort, varca la soglia di Wall Street scendendo, con un sorriso smagliante dopo aver baciato la moglie, dai gradini dell’autobus – che tenerezza. É sufficiente una mattinata di lavoro, che è come un’intossicazione da testosterone e un pranzo con un invasatissimo, ma di grande successo, businessman interpretato da un Matthew McConaughey a dir poco straordinario, per soffocare le eventuali perplessità morali del giovane Jordan riguardo al mondo di Wall Street. Primo, non importa di chi sono i soldi e cosa ci fai, l’importante è metterti la commissione in tasca. Secondo, non puoi fare bene questo lavoro se non sei in uno stato di alterazione simil-maniacale, quindi drogati e, appena puoi, masturbati. Terzo, cantiamo assieme una litania bizzarra e battiamoci il petto come dei primitivi, tanto stiamo pranzando in un posto in cui con il denaro ci si conquista il rispetto altrui.

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Questo è quello che il capo e mentore di Jordan gli dice (eccetto il punto tre, quello è sottinteso) durante un pranzo il primo giorno di lavoro: da qui in poi, il ragazzo si tufferà a capofitto in quella che, fino a pochi minuti dalla fine, diventa una realtà sostitutiva in cui tutto è esagerato, maniacale, perverso, spietato, energico, rozzo, sporco, appagante ed edonistico. E, soprattutto, dove tutto può essere comprato. Più o meno, perché Scorsese non si limita mai a fornire un singolo livello rappresentativo – se no dov’è il divertimento? – e, a più riprese, offre diversi spunti di riflessione sull’essere umano in generale: quanto siamo corruttibili, plagiabili, malleabili? Quanto ci vendiamo per un po’ di successo, potere, sesso? Solo perché non è plateale, non significa che non sia squallido lo stesso. E proprio lo squallore inizia a filtrare da tutte le parti già dai primi secondi, in cui Jordan ci mostra ciò che è diventato: uno che tira la cocaina dal «sedere e dintorni» di una prostituta. E ha una moglie che definire «bellissima» sarebbe eufemistico, una casa che assomiglia al castello di Barbie, un guardaroba strabiliante e una vita così di successo da essere esasperante. Infatti il successo deriva perlopiù da riciclaggio e altre illegalità e Jordan passa il 99% del suo tempo in uno stato di alterazione da Quaalude e simili (il Quaalude non è molto noto, per chi non avesse letto Infinite Jest o letteratura riguardante i favolosi anni Settanta, comunque, a quanto pare, ottenebra in modo devastante le funzioni cognitive) e, questo, ce lo dice con un magnifico sorriso stampato in volto, che costituisce la sua modalità espressiva principale. D’altra parte, per citare The Big Kahuna: «Every sale begins with a smile.»

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Jordan Belfort diventa, smarrendosi sempre più in un vortice di disonestà in cui finisce per trovare un nuovo sé stesso (o quello che, in  fondo, era sempre stato?), un uomo di grande successo. Il percorso di perdita di senso va di pari passo con l’aumento della ricchezza e del potere del protagonista e, perciò, non ho potuto fare a meno di pensare a The Goodfellas e al personaggio interpretato da Ray Liotta, in cui Henry Hill, da subito, confessa di aver voluto entrare in quel mondo già da ragazzo, ma, all’inizio della storia, stenta a essere come tutti gli altri: sa da che parte stare, ma sembra non esserci del tutto, finché un’escalation di violenza non ci mostrerà il contrario. Anche il modo di relazionarsi alle donne è simile, sia sotto il punto di vista del rapporto quasi strumentale che sia Henry, sia Jordan instaurano con le rispettive mogli (la seconda, per quanto riguarda Jordan), che non sono semplicemente «vittime» dei loro mariti, ma che si lasciano facilmente comprare, dai loro soldi, come dai loro sorrisi e con cui mantengono un rapporto fortemente ambivalente, che si articola su un continuum che va dalla dipendenza al conflitto.

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Anche in The Wolf of Wall Street sono presenti tematiche tipiche della cinematografia di Scorsese (per non parlare del ruolo di primo piano – come sempre – che la musica gioca), come quella del senso di colpa, qui evidente nella sua quasi totale assenza, sia per quanto riguarda il personaggio interpretato da Leonardo DiCaprio, sia quello interpretato da Jonah Hill, un venditore di camerette che, vedendo lo stile di vita del vicino di casa, si licenzia e diventa il suo primo socio in affari, nonché l’unico che Jordan Belfort non tradirà quando verrà messo alle strette dall’FBI. Ed è proprio la mancanza della colpa che porta il protagonista di questa storia – finalmente posso dire «incredibile, ma vera» – a uscirne con relativa facilità: 36 mesi in un carcere federale dove i ricchi possono comprarsi un soggiorno per nulla traumatico (molti di noi esseri umani faticano di più nel vivere una quotidianità normale) e una nuova vita.

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Jordan Belfort reinventa sé stesso e diventa un motivatore, uno psicologo delle vendite, un guru del mondo degli affari che parla di fronte a platee di poveracci che sono animati dalla (dis)speranza di poter essere, un giorno, uomini di successo e di poter vivere il sogno americano. É così che Jordan ha conquistato le persone nel corso di tutta la sua carriera, si è creato dipendenti che assomigliavano di più ad adepti e ha instaurato relazioni di dipendenza in cui erano sempre gli altri ad avere bisogno di lui: dei suoi soldi, del suo carisma, del suo amore. L’unica cosa da cui dipendeva Jordan Belfort, invece, erano i soldi, il successo e la droga.

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La regia di Scorsese è energica, schizofrenica, si avverte un’urgenza continua a destabilizzante per tutta la durata del film. Quest’atmosfera sottende tanto le scene esilaranti che si succedono per i 180 minuti rendendo un po’ più digeribile l’universo di eccessi e squallore che ci viene mostrato, quanto le sequenze più drammatiche in cui Scorsese getta lo spettatore senza alcun preavviso, lasciandolo nel silenzio più totale e attonito. La sala, che era animata dalle risate nei momenti più paradossali, diventava, nel giro di pochi secondi, una sorta di santuario del silenzio in cui nessuno osava respirare per paura di rompere la suspence e la tensione che si erano andate creando. Con questo film Scorsese è riuscito a mettere in scena non solo una biografia, ma anche una rassegna dei più bassi e primitivi istinti umani cui è fin troppo facile soccombere e, soprattutto, ha esposto una realtà parallela rispetto a quella in cui la maggior parte di noi vive, senza stigmatizzarla, ma esplorandola in tutte le sue contraddizioni e sfaccettature.

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Solo verso la fine del film il regista ci butta con violenza nel mondo reale, quando vediamo l’agente Denham dell’FBI che ha reso possibile la cattura di Belfort (interpretato da Kyle Chandler) tornare a casa in metropolitana, in mezzo alla gente comune, povera, quella che guarda fuori dal finestrino anche se non c’è nulla da vedere. Se sono bastate tre ore per farci dimenticare che quel mondo esisteva, quanto può essere fuori dalla realtà qualcuno che in quel mondo ci ha vissuto per anni? E così Jordan Belfort non si è reinventato come uomo onesto, ma ha utilizzato le sue armi (la parlantina, il sorriso, il carisma) per istruire altri a essere come lui. E, finché ci sarà qualcuno disposto a barattare la sua coscienza per sostituire la metropolitana con la limousine, quelli come Jordan Belfort avranno successo. Sempre.

2 pensieri su “The Wolf of Wall Street

  1. Allora….molti hanno detto che DOPO Gordon Gekko, il personaggio del film Wall Street interpretato da Michael Douglas nel 1987, qualunque film sulla finanza americana avrebbe per sempre avuto un debito e un punto di riferimento in quel film e in quel personaggio.

    Molte pellicole, compreso un sequel di wall street, sono state girate negli anni ma nessuna, PRIMA di The Wolf of Wall Street, aveva avuto un impatto simile.
    Merito di Martin Scorsese, probabilmente uno dei 5 più Grandi Registi viventi.
    Merito/Colpa della crisi del 2008 (ho appena visto the Margin Call, con kevin spacey, pellicola ambientata proprio il giorno prima del crollo finanziario del 2008).

    The Wolf of Wall Street è un film che quasi non sembra un film. E’ tutto dannatamente reale.; Ascesa, Crollo, Redenzione.

    Tutto in 3 ore.

    DiCaprio strepitoso, per sua sfortuna la presenza di McConaughey in Dallas buyers club lo ha privato di un oscar che sarebbe stato meritato (ma dopo aver visto dallas buyers club mi sono convinto che in fondo la performance di matthew era più coinvolgente).

    Due parole per Jonah Hill, che interpreta Donnie. Attore giovane, che ha interpretato quasi ed esclusivamente commedie leggere, adolescenziali, ruoli più da comico che da attore ma che in questo film regge la scena con DiCaprio da professionista consumato.

    Mi auguro che cambi registro, e che scelga ruoli più maturi d’ora in avanti.

    • Jonah Hill incredibilmente bravo in questo film, chi se lo aspettava? Io non sapevo nemmeno chi accipicchia fosse prima di vedere the Wolf of WS! Veramente delirante. Anche io ho ovviamente adorato questo film, lascia addosso un senso di sporco e di malessere e di wtf non da poco, penso perche` esci di sala con la consapevolezza che personaggi cosi` in un modo o nell’altro non solo non ne escono male da tutte le loro schifezze, ma anzi. E mi fa pensare a come siamo messi noi come Paese e ho la quasi certezza che sia quel tipo di vita cui molti aspirano. brividi!

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