Frightfest 2015: Ultimo giorno

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17. Night fare: i francesi con il cinema ci sanno fare. Tranne quello di Rabid Dogs. Night fare è un film forte, di tensione, un film che ti tiene inchiodato per tutto il tempo, girato con un budget di 500mila euro (mi pare) o comunque pochissimo e con dei personaggi molto potenti. I legami tra i protagonisti sono il vero punto di forza del film, in cui la loro psicologia viene sviluppata rispetto alle loro storie ed è tutto credibilissimo, al punto da far soprassedere su un finale un po’ raffazzonato, pieno di buoni intenti ma non pensato inizialmente (come ha detto il regista). A volte dare una spiegazione non è così necessario. Di buono c’è che ci rivedo i film sulle banlieue, che mi piace l’aspetto un po’ patinato con i fighetti e il taxi tamarro e spaccone che si mischia con una realtà sozza e industriale (che forse era quello che sarebbe dovuto accadere in Rabid Dogs), ma anche la scelta di ridurre ai minimi termini il numero dei personaggi, in modo da avere la possibilità di conoscerli intimamente, di credere nella loro esistenza e di avere genuinamente paura per le loro vite. Un buon action e un buon thriller e un buon drammone, non sono ancora molto convinta dalla morale finale, che un senso ce l’ha, ma perde un po’ di forza proprio a causa della potenza con cui viene marcata. E anche quest’ultima giornata di festival parte bene.

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18. Nina Forever: sicuramente uno dei cinque film migliori del festival, che definirei più che altro un film drammatico che usa l’horror come metafora del dolore e del lutto. Ho adorato questo film, ho pianto, ci ho pensato per giorni, ci penso tutt’ora: non c’è nulla di fuori posto, di sbagliato, di non necessario. Eppure è un film sovrabbondante, metaforoso, immaginifico, pieno di rimandi e citazioni e di sequenze sopra le righe, pieno di contraddizioni che sono quelle umane e nascono un po’ dal dolore, un po’ da quando menti a te stesso e allora pensi di essere certo di qualcosa ma non lo sei – e, alla fine, stai malissimo ma impari a conoscerti. Il film si apre presentandoci Holly, una ragazza che viene lasciata dal suo date e che fantastica sull’avere un fidanzato che, se lei morisse, si suiciderebbe per il troppo dolore. Holly incontra, nel supermercato in cui lavora per pagarsi gli studi da paramedico, Rob che evenidentemente le piace e lui, seppur esitando, le chiede di uscire. Noi siamo lì con loro, accipicchia, siamo emozionati per il primo appuntamento quello vero, con Holly che si prova i vestiti in questa sequenza bellissima e poetica e divertente in cui il montaggio alternato ci mostra lei che si prepara e lei che si spoglia con Rob poche ore dopo. Mentre fanno sesso, una chiazza di sangue macchia il lenzuolo bianco. E appare Nina. O meglio, il suo cadavere. Il suo fantasma. Il suo zombie. Il corpo scomposto e ricoperto di sangue, i capelli scompigliati, gli occhi sbarrati e la furia della fidanzata che trova il suo ragazzo a letto con un’altra. “Ma sei morta”. Eppure lei è lì, imbratta il lenzuolo con il suo sangue, parla, insulta, mette a disagio.

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Holly, terrorizzata, fugge, tagliandosi il piede e insanguinando la casa a sua volta. Nina sparisce, ma la stanza resta imbrattata di sangue. La metafora non è sottile perché non vuole esserlo: il lutto non elaborato lascia strascichi ed è doloroso, per chi lo vive in prima persona e per chi gli è vicino. Eppure Holly torna, bacia Rob, fanno l’amore, buttano le lenzuola insanguinate tenendosi per mano, finché Rob non supera il lutto e Nina sparisce. Ma sparisce dalla sua vita solo per tornare in quella di Holly: lei si è innamorata del dolore di Rob e, una volta liberi dal ricordo costante di Nina, Holly sente la mancanza di quella sofferenza, di quel dolore e finisce per cercarlo altrove, lontano da Rob. Questo film è lucidissimo ed è una delicatissima analisi del lutto, della sofferenza, della necessità del dolore altrui per affrontare il proprio (il fatto che Holly voglia essere un paramedico e la sua necessità di confrontarsi con la morte e con il dolore probabilmente sono un momento di passaggio e di definizione della sua identità, una ricerca del suo posto nel mondo della sofferenza, forse). Il fatto che affronti il tema utilizzando l’horror, con una Nina zombie che è fenomenale nel leggere gli altri personaggi senza tutti i filtri che i viventi hanno, è geniale. Il suo personaggio è raccontato solo da foto, accenni, dai suoi tatuaggi (la citazione “disappear here” da BEE, proprio sulla coscia, ad esempio), eppure ne emerge il ritratto di una persona completa e complessa, con i suoi difetti, ma con delle zone di luce che sappiamo esserci anche se non le vediamo, perché a noi, direttamente, viene mostrata solo la Nina sarcastica ai limiti del crudele, ferita, sofferente: noi conosciamo solo il suo rabbioso fantasma. Eppure capiamo che prima era una persona vera. E questa operazione non è per nulla banale e- anche se non l’ho visto – credo si discosti parecchio da Burying the Ex (che pare essere un’improponibile merda). Nina Forever mi ha emozionata, mi ha fatto soffrire, sperare, preoccupare. Mi ha fatto riflettere, soffocare il pianto. Mi ha costretta a pensare al dolore, ma anche all’amore e credo che questo film funzioni a vari livelli a seconda del momento in cui ti trovi, a seconda di a che punto della tua vita sei. Secondo me ti fa venire voglia di abbracciare chi ami con la forza di un koala, di alzarti e urlare “più film indie!”, di andare dai registi e abbracciarli e ringraziarli, perché hanno creato qualcosa di nuovo, di speciale, di coraggioso e l’hanno fatto così bene che tutto il film grida “sono un’opera d’arte! Sono un capolavoro!”. Quindi sì, Nina Forever forever!

Curve-Feature-Image-310x16519. Curve: ultima produzione Blumhouse che, come spesso accade con questi film, non distrugge il mondo da quanto è geniale, ma diverte e intrattiene. Se Insidious crea l’atmosfera dello spaventerello facile e si avvale di Patrick Wilson che inizia a fare il pazzo e della presenza di Lyn Shaye e dei suoi acchiappafantasmi scemotti, anche qui poggia tutto sulle spalle di pochi, pochissimi personaggi, due: una tizia che sta andando a sposarsi con uno che è palesemente un coglione e un tizio che la soccorre per strada e riesce a farsi dare un passaggio. Il tizio si rivela uno psicopatico, lei, per liberarsene, sterza, finisce fuori strada e resta bloccata a testa in giù nella macchina per un sacco di tempo, in balia di catastrofi atmosferiche, fame famissima, lo psicopatico che torna puntualmente a romperle le balle mentre lei sta solo cercando di sopravvivere in santa pace. Il film è carino, divertente, low budget, come da Blumhouse e se la gioca tutta sulla personalità della protagonista cazzuta, sul fatto che sappiamo che da un momento all’altro lui potrebbe scattare e ucciderla e sull’empatia che stabiliamo con lei. Carino, divertente, un Blumhouse di quelli buoni, dai. Pollici insù per lo spiedino di ratto (anche se non mangio carne).

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20. Emelie: il Canada sta presentando cose interessanti e, dopo Turbo Kid, ecco un film che ha un registro completamente diverso, ma comunque valido. Fermo restando che TK rientra senza dubbio nella mia top 5 del festival, mentre questo no, in ogni caso Emelie rientra nella categoria dei “belli e cazzuti”. Una coppia ha bisogno di una baby-sitter per la sera del loro anniversario, la solita baby-sitter è irreperibile, subentra quindi una sostituta che pare tanto carina e simpatica e tutto il resto, ma inizia a comportarsi come una squilibrata lasciando che i bambini si ingozzino, facendogli vedere un porno casalingo starring il padre e co-starring una che a quanto sembra non è la madre, si fa assistere da uno dei bambini mentre si cambia il tampax eccetera eccetera. Il film mette su una discreta tensione e un malessere abbastanza indigesto finché non sbotta assieme alla baby-sitter con parecchia violenza, tanto sangue e un colpo di reni di coraggio di uno dei bambini che con una tempra a là Goonies cerca di mettere in salvo i suoi fratellini. Veramente carino e stringi-stomaco.

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21. Tales of Halloween: per chiudere un festival horror un’antologia di racconti di Halloween e come la ciliegina chimica sul gelato, la panna sulla cioccolata, i tacchi alti con un bel vestito, eccetera eccetera. Degli 11 episodi ne ho adorati alcuni, mentre altri sono ormai passati nel dimenticatoio. L’effetto generale è un po’ la stessa cosa di mangiarsi un sacchettone di caramelle miste: in mezzo alle coccobat e alle gommose ci sono anche le Rossana. Capita, purtroppo. Però, alla fine, l’impressione è quella di avere fatto una bella scorpacciata di quelle che capitano troppo poco spesso. Ci vorrebbero più film così (o come A Christmas Horror Story, che ho comunque preferito), in cui l’horror viene esplorato anche in tutta la sua comicità. Segnalo il segmento “The night Billy raised hell”(Darren Lynn Bousman), al limite del demenziale ma genuinamente divertente, tanto che lo rivedrei anche subito e l’episodio di Lucky McKee, che è sinceramente il più interessante e sperimentale (con una ottima Pollyanna MacIntosh) e che, ancora una volta, mette la figura femminile al centro della narrazione, unendo tenerezza, dolore e violenza nello stesso personaggio in un climax divertente e triste allo stesso tempo. Ho adorato questa chiusura, con Ian Rattray che aspetta all’uscita per stringere la mano a tutti, la commozione del pubblico che sa di dover tornare alla vita reale (puah) ma allo stesso tempo pensa al programma del Frightfest 2016 e alla fine mi sono portata a casa lo spirito del festival e adesso, quando guardo i film sul divano con il mio moroso, ci sono quelli che proprio ci fanno sentire ancora al frightfest – tipo uno a caso di Lucky McKee, che li presenta sempre li`.

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Il firghfest non è solo un’occasione per vedere una valanga di horror, scoprire nuovi registi, consolidare l’ammirazione per altri, entrare in contatto con quel cinema di genere puro e realizzato con passione, vedendo fisicamente chi ci lavora presentare la sua creatura pieno di speranza, entusiasmo e umiltà. Il frighfest è anche un enorme divano che condividi con altre 1000 persone, un mondo in cui respiri bizzarria e divertimento e spensieratezza (dark), dove ti giri e vedi un vecchino vestito da fantasma dell’opera ed è un semplice spettatore, una cinquantenne frangettona alta un metro e cinquanta che tiene Chucky sottobraccio, dove la tua vicina di posto è una ragazza in carne e super-ilare-rumorosa-gioiosa che quando scopre che sei una dei pochissimi nuovi spettattori (meno di 10 nella sala in cui stavo) ti abbraccia e urla “welcome virgin! You’re going to live this!’. E aveva ragione. Il FF è il posto in cui l’indie horror trova una casa, dove tutte le buone intenzioni hanno un posto in cui mettere le loro nodose e contorte radici e possono sperare di crescere, di avere una futuro. Qui il cinema di genere è Cinema e basta, come merita di essere e spinge a recuperare vecchi capolavori quanto a scavare e scoprire nuove perle e affezionarcisi e tornare a casa e non vedere l’ora che la sala più vicina passi un horror di quelli come si deve (ma purtroppo non succede).
Frightfest 2016: sto arrivando.