Trieste Sci+Fi 2015

È il mio secondo anno allo Science + Fiction di Trieste e l’intento è quello di documentare il tutto per bene, lavoro e ore minime di sonno (n = 3) permettendo. Ieri era giorno di festa e sono riuscita a vedere tre film. Sono fermamente decisa a non farmi scoraggiare, anche se l’inizio, partito con un bel documentario su HR Giger e un divertente REC4, mi è poi ri-rotolato addosso come una di quelle palline bastarde del flipper che scivolano giù e proprio non riesci a conviverci. Ma andiamo con ordine.

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DARK STAR (non quello di Carpenter – grazie per avermelo fatto scoprire <3): Ore 16, entro in sala appesantita perché ho dovuto comprare un libro (unica copia) su Giger che era meraviglioso e, una volta uscita dal doc, ne ero ancora più entusiasta. Il documentario era ben fatto, molto carino, ma niente di speciale, di autoriale, un po’ pesante nel continuare a mostrare il contrasto tra i palazzoni bianchi e lucenti e la mini-casetta di Giger tutta coperta dai rampicanti e piena di libri, anche nella vasca da bagno. Quello che rende un documentario che di base sarebbe “ok” un’esperienza meravigliosa è l’oggetto del documentario stesso. Per me, Hans Ruedi Giger, è un idolo di infanzia. Non so se sarei arrivata a tatutarmi tutta la schiena con uno dei suoi quadri (molti metallari lo hanno fatto), né se mi sarei mai potuta mettere a piangere per il suo autografo (anche questo, documentato, metallato), ma ho libri, poster, sono stata al suo museo, mi sono nutrita al suo bar, ho fatto le prime foto decenti della mia vita proprio lì. Da bambina adoravo l’arte e l’horror e Giger era un po’ il punto di congiunzione, non solo tra questi due mondi, ma anche tra me e mio padre – un artista che detesta l’horror. Giger ha qualcosa di Lynch in quello che fa (faceva, sob): la serenità e il candore con cui confessa di dipingere ciò che lo spaventa. Entrambi sono personaggi estremamente consapevoli e credo che sia proprio questa consapevolezza che rende l’esecuzione perfetta di quello che fanno un’arte. Non esiste mezzo illustratore horror che sia artista quanto lo era Giger. E di registi che tentano di fare gli onirici ce ne sono fin troppi. Take-home message: voglio un trenino in giardino come quello di Giger anche io.

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REC4: me lo presentano come un action horror. Io della saga dei REC ne so ben poco, lo ammetto. Ho visto il primo, carino. Ho iniziato a vedere il secondo e non l’ho finito. Mi sono lasciata scappare il terzo e sono arrivata in sala abbastanza confusa, credendo che questo fosse quello sul matrimonio invaso dagli zombie. Lo so, non ho fatto i compiti a casa. Mi sono divertita, finalmente viene fatto un uso creativo di un motore da barca. Il film scorre velocemente e passa, diverte, ci sono degli zombie che ricordano tanto la cara Henrietta-Ted-Raimi, però io il film l’ho già dimenticato. La parte action si impegna, vuole esserci, ma non ho passato nemmeno mezza sequenza aggrappata al bracciolo della sedia, perché le sequenze di botte sono tutte spezzate e va bene il ritmo veloce, ma io l’azione la voglio seguire, non vederla smozzicata. È come mangiarsi una fetta di Sacher a mini bocconi.

266280-frankenstein-0-230-0-345-cropFrankenstein: Il regista di Candyman, Bernard Rose, non ha fatto granché altro. Io lo conosco solo per Il violinista del diavolo, che sarebbe un film X ma che ho recensito bene solo perché David Garrett suona per tutto il film e quindi ti stordisce con la sua bravura. Quindi, ammesso che non ho mai sentito un violinista così bravo, ammesso che Jared Harris come Satana ci sta sempre, il film è trascurabilissimo. Ma, accanto a questo Frankenstein, si merita la palma d’oro. Bella l’idea della narrativa in prima persona, più fedele al libro, ma il film sbraca totalmente al minuto due, poi si riprende per un quarto d’ora e dopo va tutto in vacca di nuovo. Ma fatemi essere più tecnica. Va bene, non vuoi usare la soggettiva perché non vuoi essere ovvio? Ci sta, ma fammi un movimento di macchina che sia uno (con un po’ di senso) o tieni la camera fissa. La regia era un pelino televisiva, dove c’era un campo sapevi esattamente dove trovare il controcampo e poi c’era Carrie Ann Moss. Non dico altro se non: ve la ricordate in Memento? Praticamente fa sempre le stesse espressioni. E poi la gente se la prende con Nicholas Cage. Ecco, partiamo da qui per dire l’unica cosa che mi sento di dire: Frankenstein cerca così forzatamente di inculcare una morale nello spettatore sottoponendolo a scene di tortura gratuite e talmente studiate e costruite a tavolino che non sollecitano nessuna empatia, anzi, innervosiscono. Sembra tutto fatto apposta per farci soffrire con il Mostro, anche l’uccisione del cane (vai a vederti la morte del cane in Il Sospetto di Vinterberg, dai), con una freddezza che Inarritu a confronto sembra sinceramente interessato alla sofferenza umana. La figura del cieco come barbone che insegna alla creatura a parlare poteva essere interessante, ma non gli insegna la letteratura, l’amicizia, l’affetto, tutte quelle cose che nel libro ci sono e sono scritte con una forza che qui non esiste. Era molto più moderno il Frankenstein con Karloff (cui Rose pare essersi ispirato, così dice). Io ci sono rimasta genuinamente male, perché il film prometteva riflessioni sulla creazione di una coscienza (non c’è paragone con il buono Ex Machina) miste all’horror e al gore, ma alla fine resta solo il gore e nessuno spazio per riflettere o commuoversi, perché è tutto studiato a quello scopo, ma studiato nel modo sbagliato. Per riallacciarmi a Nic, alla fine mi sono commossa di più con Drive Angry.

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