All is lost

Non appena entro in sala, la sala 3 del Nazionale di Trieste, mi chiedo: perché relegare una nuova uscita in una sala piccolina, dove la gente si accalca e posso sentire qualcuno nella fila dietro alla mia (la seconda) chiedere a qualcun altro: di che parla il film? Devo ancora adattarmi alle poltrone, poltrone di una nuova città, un nuovo cinema e agogno le morbidissime del cinema Massimo di Torino e faccio in tempo a diventare nostalgica, perché, nel frattempo c’è la pubblicità.

E poi inizia il film e la macchina da presa sembra galleggiare sull’acqua, mentre una voce maschile ci dice che ormai tutto è perduto e si pente di ciò che ha fatto o non ha fatto, delle scuse che non ha posto. La camera fissa e la voce in assenza del corpo conferiscono solennità alla scena, mentre un container galleggia come se fosse un feretro buttato in mare.

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Sebbene il film sia quasi totalmente privo della voce umana e i dialoghi siano completamente assenti, il ritmo è mantenuto dalla regia intelligente (J.C. Chandor, Margin Call) e dal montaggio veloce, caratterizzato da moltissimi piani ravvicinati sulle mani e su parti del volto del protagonista. Le immagini che costituiscono i fotogrammi sono frammenti di rara bellezza; la profondità di campo è poca, a un dettaglio definito si contrappone una sfocatura del totale che ci costringe a focalizzare l’attenzione su quell’oggetto, su quel momento, perché tutto quello che accade, in questo film, è qui e ora e, soprattutto nel racconto visivo dell’incidente, non possiamo fare altro che restare dentro ciò che sta succedendo. Non possiamo distaccarci, non possiamo respirare. Anche se l’incipit ci fa presagire il fatto che le cose prenderanno una pessima piega, la tensione è altissima.

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L’interpretazione (magnifica) di Robert Redford consente allo spettatore di tentare delle speculazioni su chi sia l’uomo che combatte con dignità contro un impietoso oceano indiano. Alla prima difficoltà, che causa una lacerazione nell’imbarcazione, non dà segni di sconforto, ma, facendo ciò che in molti riuscirebbero a fare solo con l’aiuto di un’altra persona, riesce a riprendere possesso del controllo. Potremmo pensare che si tratta di un uomo solitario, abituato a non condividere i propri spazi con gli altri, forse costretto a convivere con sé stesso soltanto a causa dei propri errori. O forse no. Non sappiamo nulla. Anche se volessimo pensare che il nome della barca, Virginia Jean, si riferisca a una (o più: una moglie e una figlia? Due figlie?) persona perduta e con cui vorrebbe fare ammenda, non possiamo. Perché in questo film nulla ci parla direttamente della vita del protagonista e, allo stesso tempo, sono i suoi gesti, le sue espressioni, il suo modo di affrontare i problemi a dirci qualcosa su di lui, anche se si tratta di qualcosa che trascende una storia di vita. Il film ci parla della persona. Della sua incredibile forza, quando dopo l’ennesimo imprevisto risolto, veleggia al tramonto con il sorriso sulle labbra. Della sua combattività, quando una spaventosa tempesta si annuncia all’orizzonte e lui si veste con la cerata e si rade, come se si preparasse per una battaglia.

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La tempesta colpisce l’imbarcazione e l’uomo è costretto a lasciarla andare, mettendosi in salvo su un gommone di emergenza. L’affondamento della barca a vela è solenne e terribile, rappresentato come una vera morte. E poi, per la prima volta, vediamo l’oceano per intero: una distesa sterminata, omogenea, in cui il gommone non è altro che un piccolo, solitario oggetto vittima di una grande desolazione e la temutissima (almeno, per me è la posizione peggiore in cui possa trovarmi) inquadratura dall’alto fa la sua comparsa. Da questo punto in poi la fotografia non solo è di altissimo livello, ma assume anche una grande valenza artistica e si gioca spesso sulle similarità tra le forme, come tra quella del canotto e di una medusa o di un branco di pesci.

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E poi ci sono gli SOS, le richieste di aiuto con i fuochi di artificio, che trasmettono una totale impotenza, una helplessness disperata che fa di questa serie di scene una sequenza annichilente, che culmina con un climax ascendente di dolore con l’immagine del flash che cade in acqua spegnendosi, assieme alla speranza che muore sul volto di Robert Redford.

La parte finale del film è un rasserenante lasciarsi andare e lasciar andare: le proprie scuse, una confessione, un saluto in un barattolo di vetro. Ancora una volta, non abbiamo idea di cosa ci sia scritto, ma possiamo immaginarlo e dare il nostro senso alla storia. Allo stesso tempo, anche il finale è interpretabile e il soccorso ricevuto dal protagonista una volta che si è lasciato andare e ha iniziato a sprofondare nell’oscurità dell’oceano è – a mio parere – un salvataggio vero e proprio. O meglio, sia che il personaggio interpretato da Robert Redford venga realmente salvato da un’imbarcazione solitaria, sia che venga salvato nella morte, il messaggio è ugualmente rasserenante e profondo: solo dopo aver lasciato andare e dopo essersi affidato, l’uomo è veramente libero.

 

Da vedere.

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