Synecdoche, New York

Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.

(David Foster Wallace)

Ho un nuovo film preferito. A un certo punto, nella vita, accade qualcosa che spazza via tutto il resto: un libro (Infinite Jest), un film (ne ho avuti molti, troppi dei quali di Lynch, Haneke e von Trier), una persona. E il resto sparisce, il respiro si ferma, ogni angolo della propria mente viene illuminato da qualcosa di totalmente nuovo. Synecdoche, New York è il genere di film che fa questo effetto. Immaginifico come un film di Michel Gondry (per cui Kaufman è stato due volte sceneggiatore per due film che sono tra i migliori degli ultimi dieci anni, Eternal Sunshine of the Spotless Mind e Human nature), fiabesco come Spike Jonze (autore di Her e del corto I’m Here, che è una delle cose più strazianti che abbia mai visto e per cui Kaufman ha sceneggiato Il ladro di orchidee e Essere John Malkovich), contorto come (il mio) David Lynch e poetico come Herzog, Synecdoche, New York è un film che ha una trama, ma che è impossibile da raccontare, è un inestricabile intreccio di riflessioni sulla vita e sul senso che questa assume alla luce delle nostre azioni e delle nostre non azioni, del tempo che sprechiamo a riflettere anzi che ad agire, sulle occasioni mancate, su noi stessi. Credo che il più grande pregio di questo film sia quello di parlare a ognuno in modo diverso, proprio come, tanto tempo fa, un certo J.D. Salinger è riuscito a far sentire chiunque leggesse il suo romanzo come se l’avesse scritto per lui. E per lui soltanto. Così Kaufman costruisce un’opera che parla a ognuno di noi spettatori e ci getta in faccia risposte, nuovi interrogativi, verità, emozioni che sembrano costruite su misura per noi. Questo film è anche un po’ mio, viene da pensare quando si esce faticosamente (e con gli occhi arrossati) di sala. Una sala semideserta perché non è un film facile, né pubblicizzato (dato che risale al 2008, ma in Italia è distribuito ora per la prima volta). Ma è un film da vedere, assolutamente.

Il forte impatto che questa pellicola ha è dovuto anche alla presenza di Philip Seymour Hoffman, che interpreta Caden Cotard, un registra teatrale che si trova ad affrontare una crisi fatta di problemi di salute, familiari, psicologici mentre mette in scena una versione piuttosto classica e pedissequa (tranne che per i giovani protagonisti) di Morte di un commesso viaggiatore – anche questa un’opera estremamente carica di significato – a Schenectady, New York. Schenectady diventa Synecdoche e tutto il film è costruito attorno a questa figura retorica per cui un termine viene sostituito con un altro con cui sussiste una relazione di vicinanza. Se dapprima la sineddoche viene applicata nel piccolo, come quando Caden, accortosi di essere affetto da una strana malattia che lo sta uccidendo (ma ci metterà un’eternità) spiega alla figlia che uno dei sintomi (un eritema), la sicosi, è diversa dalla psicosi – anche se nel suo caso questa differenza sembra venire sempre meno -, con il passare dei minuti l’intero mondo di Caden è una sineddoche e, soprattutto, lo è l’opera teatrale che decide di scrivere e rappresentare con i soldi vinti con il premio McArthur. Caden viene lasciato dalla moglie, un’artista di grande talento che porta la figlia con sé a Berlino, una figlia che dieci anni sarà ricoperta di tatuaggi che finiranno per avvelenarla (la scena sul letto di morte con i fiori tatuati che appassiscono e perdono i petali è una delle sequenze più belle che il cinema sia mai stato in grado di regalarci), mentre con Hazel (Samanta Morton), che lavora al botteghino del teatro e che è innamorata di Caden, la paura che lo assale – e iniziamo ad accorgerci che Caden è terrorizzato da tutto quanto sia un po’ forte, imprevedibile, spontaneo – lo porta a rovinare tutto per rendersene conto quando è troppo tardi – quando finalmente riuscirà ad accorgersi che Hazel è quello che ha sempre voluto e si ritroveranno per davvero, lei morirà.

24syn.xlarge1

Dall’inizio della creazione della sua opera teatrale in poi, il film è una continua sostituzione di qualcosa di reale con qualcos’altro, ma non si tratta di rimpiazzi con elementi fittizi: spesso, invece, il sostituto ci dice qualcosa di più sull’originale. Sia gli attori che interpretano le persone reali, sia gli attori che impersonano gli attori, sia la scenografia, che sta per il mondo di Caden, possiedono una verità intrinseca che ci apre gli occhi su un nuovo mondo, che spalanca una porta su un’altra sfaccettatura di Caden, Hazel, Claire e tutti gli altri. Il personaggio di Hazel è molto interessante, soprattutto per la rappresentazione che Kaufman ne fa: è accogliente, sincera, onesta, spiritosa, un po’ pazza e la casa in cui si trasferisce è costantemente arsa da un piccolo incendio controllato che sembra quasi dirci quanto il suo desiderio di casa le faccia amare quel posto, così carino e particolare, nonostante l’incendio e i continui fumi, proprio come ama Caden, nonostante le sue idiosincrasie.

synecdoche1

Caden è un personaggio di una complessità straordinaria, è un essere umano reale, intero, vero. Uno dei più completi della storia del cinema. È depresso, profondo ma a tratti superficiale, tormentato, ipocondriaco, disperato, malinconico e la sua forza risiede proprio nell’essere così spaesato, in questo mondo e nel mondo da lui stesso creato, da rendersi conto di avere bisogno di qualcuno che lo interpreti per capirsi meglio. L’attore che lo impersonerà a teatro, Sammy, che (inverosimilmente – ma in questo film la verosimiglianza è totalmente inutile) lo segue da anni, gli spiegherà qualcosa di lui e sul suo amore per Hazel, sul suo rapporto con Claire (la sua attrice, con cui per qualche anno sarà sposato) sul suo modo di affrontare la vita e di non affrontarla. In tutta questa stratificazione di sostituiti che stanno per l’originale, non c’è più un vero e una copia, perché ogni essere umano, anche se è solo una comparsa nella nostra vita, ha una vita sua, in cui altri sono comparse e, perciò, merita tutta l’attenzione e il rispetto del mondo.

sny01__1__1242801711_crop_548x364

E Questo è uno dei concetti chiave del film, che riguarda il modo in cui ci rapportiamo agli altri mentre tentiamo di essere il più possibile noi stessi e, armeggiando con questo disastroso groviglio che è la vita, rischiamo di fare dei danni irreparabili. Sotto questo punto di vista il suicidio di Sammy è estremamente forte, visivamente e a livello di significato: visivamente riprende il tentativo di suicidio a opera di Caden quando aveva visto Hazel con marito e figli, ma rappresenta anche il modo in cui Caden, tornando da Hazel dopo molti anni, presta attenzione solo ai propri sentimenti considerando Sammy solo come un interprete del suo personaggio e non come un essere umano vero e totale. La multiformità del protagonista non poteva essere incarnata da nessuno che non fosse Philip Seymour Hoffman (e questo film è anche suo), che dà al personaggio un’umanità che non credevo cinematograficamente possibile e una profondità che sta al passo con quella del film, con tutti i suoi livelli e i continui rimandi e le continue cadute in altri mondi, in altri strati, oltre lo specchio (una versione ancora più deprimente e drammatica del già drammatico Attraverso lo specchio, appunto). Il sorriso malinconico di Philip Seymour Hoffman diventa un tratto distintivo di Caden Cotard, che esiste sempre in bilico e in balia di questa probabile sofferenza sempre in agguato, di questa imminente tragedia – una malattia mortale, ad esempio – che potrebbe verificarsi e che risiede dentro di lui, che se lo sta mangiando vivo, che lo sta uccidendo poco a poco. La sua paura per sé stesso – e non per chi gli sta attorno – è la sua più grave malattia e, allo stesso tempo, è animato da una bontà e una purezza che non potrebbero coesistere con tutto il resto. Questa contraddittorietà costituisce la potenza di questo personaggio e sono certa che nessun altro sarebbe stato in grado di rappresentarlo con tanta fedeltà e umanità come Philip Seymour Hoffman, che regala a Caden una dolorosa bellezza.

finAbbiamo a che fare con un uomo che è così confuso e perso che finisce per trasformarsi in qualcun altro, Ellen, una donna delle pulizie, che, a sua volta, diventerà Caden e sarà regista della sua vita e, soprattutto, della sua morte, conducendolo per mano verso la sua fine, dimostrando di essere molto più capace di lui nel dirigere la sua esistenza. Ed è qui che capiamo che Caden è Ellen e Sammy e Olive (sua figlia) e chiunque altro abbia fatto vivere nella sua mente, chiunque abbia deciso di rappresentare e descrivere, chiunque abbia pensato e immaginato e amato. Caden è sé stesso e tutte queste persone ed è proprio quando realizza di essere questa comunione di stati d’animo che, afferrato il senso di tutto, può finalmente morire.

7 pensieri su “Synecdoche, New York

    • Come ho scritto sul tuo blog, hai ragione. Questo film è la vita, ritratta forse nell’unico modo davvero sincero possibile, come la vede lui. Una cosa che non si può inscatolare e ingabbiare, ma che è talmente multiforme e animata che o la rappresenti così, oppure crei una storia e rappresenti uno scorcio di vita, una fetta. Synecdoche è il tentativo di rappresentarla proprio tutta, senso incluso

    • tra parentesi: come ho scoperto il blog di Giuseppe? Mia mamma si è messa a cercare in rete informazioni sul film e mi ha detto: hei, c’è questa bellissima recensione sul film su questo bel blog, ecc ecc!

  1. Tua madre dovrebbe fare i complimenti a te, non a me.
    “Ho un nuovo film preferito”, ecco, qui già mi erano venuti i brividi perchè è lo stesso, e lo dico con sicurezza, anche per me.
    E poi citi Lynch, Von Trier etc.., mi sembrava di stare leggendo me stesso.
    Per il resto la recensione è magnifica e, a differenza della mia, completissima.
    Non so se lo sapevi ma riguardo la paura di morire, la minaccia, è lo stesso cognome, Cotard, che la richiama.
    La sindrome di Cotard infatti è quella per cui una persona si sente “morta”, una specie di ipocondria a livelli parossistici.
    Ho visto la tua homepage, ci sono tutti film che ho amato ultimamente e recensito, Her, Locke, Trier e tanti altri.
    Con calma me le leggo tutte, poi ci scambiamo i pareri.
    Metto il tuo blog in quelli che faccio vedere nel mio.
    Scrivi sempre per te.
    Ma se qualcuno ti legge non hai fatto niente di male.
    A presto.

    • Grazie, grazie perché la solitudine del cinefilo è una malattia che si sperimenta troppo spesso chi scrive per passione, per necessità. Una necessità dettata dal fatto che è impossibile tenersi dentro quello che un certo film ha fatto per noi, come ci ha cambiati, animati, fatti sentire finalmente dotati di senso, come se avessimo un posto nel mondo.
      E io ringrazio mia madre per aver trovato il tuo blog, in cui esprimi benissimo quella sensazione che è un po’ come il cuore che salta un battito e che si prova quando si vede un capolavoro del genere.
      Non so come mettere il tuo blog tra quelli che leggo perchè non sono assolutamente capace, quindi lo scrivo qui, che Il buio in sala è meraviglioso. Penso che il cinema sia un’esperienza soprattutto individuale, ma esiste ed è una magia e poterne parlare così con qualcuno è uno dei tanti regali che quest’Arte ci fa.

      • Ah ah, ma mica devi ricambiare nulla 🙂

        Ho studiato cinema, conosco molto bene almeno la parte di scrittura della sceneggiatura ma alla fine quando commento un film, specie quando mi prendono, al 90% scrivo col cuore.
        A volte nemmeno scrivo il nome del regista, degli attori, nessun accenno alla trama.
        Prendo il pc, comincio a scrivere e quel che viene viene, di getto.
        Ma piano piano senza obblighi nè fretta ci leggeremo.
        Ma date troverò tutta roba buona, da me anche horror e filmacci (tutto tranne film con effetti speciali e film d’amore, quelli proprio non ce la faccio).

        A presto

I commenti sono chiusi.