Dom Hemingway

Cerco di trovare una spiegazione al perché, dopo aver visto Dom Hemingway, non mi sono immediatamente catapultata a scriverne la recensione. Forse perchè l’ho visto a Torino e, dopo i 600km di viaggio verso Trieste il giorno stesso, mezz’ora dopo la fine del film, non ero nel pieno possesso delle mie facoltà mentali. E non le ho recuperate che ora, un mese dopo. Possible? Non lo so, quello di cui sono certa, in ogni caso, è che Dom Hemingway è imperdibile. Se vi piacciono i Clash e l’atmosfera che portano con sè, se avete amato Bronson, se la cultura inglese vi fa impazzire, se siete ancora un po’ ragazzini, se vi piacciono le kitschate assurde alla Pappi Corsicato, il politicamente scorretto così scorretto da essere tenero e, soprattutto, se avete sempre sperato di vedere Jude Law che fa un ruolo per nulla da Jude Law, allora correte immediatamente a
recuperare questo film.

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Un film che inizia con un monologo esplosivo, interpretato con un meraviglioso accento da un Jude Law a torso nudo (che scopriamo poi essere un nudo integrale). Un monologo sul suo pene. Mentre qualcuno gli fa una fellatio. Un monologo che va a pescare nel lerciume più pesante che le parole possano evocare e incolla allo schermo. Cioè, nonostante sembri scritto per essere irritante, risulta ipnotico e divertente, anche simpatico. E questo stile riassume quello del protagonista, un criminale che ha scontato tre anni di carcere per non tradire un uomo, Ivan Anatoli (Demian Bichir, che, io lo sostengo da tempo, ha un aspetto da sociopatico che dovrebbe fargli avere la metà delle parti da malavitoso senza coscienza disponibili), da cui si aspetta una coscpicua ricompensa.

All’uscita dalla prigione, dopo dodici anni di reclusione, Dom viene recuperato dall’amico Dickie ( un Richard E. Grant da spezzare il cuore da quanto è british e che risulta ancora più attraente – se mai fosse stato possibile – quando scopriamo che ha perso una mano, cosa che vive con un’eleganza assoluta, rappresentata dai guanti di pelle, da risultare impercettibile, soprattutto per Dom, che non se ne accorgerà finché non gli verrà fatto notare) e, immediatamente, corre a cercare l’uomo che ha sposato la sua ex moglie mentre lui era in carcere, che l’ha amata, che l’ha sepolta dopo la sua malattia. Questa è una delle sequenze più impressionanti del film: Dom entra in un’officina, saluta con un sorriso spavaldo alcuni vecchi amici, si avventa sull’uomo che “gli ha rubato la moglie”, lo colpisce fino allo sfinimento (di entrambi) e, mentre il sangue schizza da tutte le parti, riesce a intrattenere una conversazione con uno dei suoi conoscenti che lavorano nell’officina. Poi lascia a terra l’uomo (a dir poco agonizzante, con una faccia talmente rigata di sangue che non abbiamo più nemmeno la certezza che si possa ancora chiamare faccia), saluta, di nuovo mostrando i denti (più che un sorriso è una cosa a metà tra un ghigno e una digrignare) e se ne va. La seconda cosa che fa è andare al pub, per rendersi conto che non si può più fumare nei locali. A Dom Hemingway non importa e continua a fumare la sua sigaretta, alza la musica a tutto volume e cerca di recuperare il tempo perduto in tre giorni con troppo sesso (con escort fornite per gentile concessione di Ivan), alcol e droga finendo per svegliarsi come se avesse perso trent’anni di vita e trascinandosi a fatica sul treno per raggiungere la villa di Ivan. Ivan ha una fidanzata bellissima, Paolina, che sembra una supermodella e, dato che Dom Hemigway è IL maschio alfa, dimentica, per un attimo che il suo capo è un pericoloso sociopatico e, fomentato dal fatto di aver passato per lui dodici anni in prigione, dodici anni per colpa dei quali ha perso completamente la stima, l’affetto e il rispetto della figlia, in  seguito a tutte queste cose Dom si lancia in una scena madre in cui strilla, chiama Ivan Ivana (io stavo seriamente soffocando dal ridere), gli urla che vuole portarsi a letto la sua fidanzata, esce furiosamente dalla stanza sotto gli sguardi increduli di Dickie e (alterato) di Ivan, poi si toglie tutti i vestiti (non voglio dilungarmi sulle scelte di stile di Dom Hemingway, diciamo solo che è l’equivalente, in termini di moda, dell’insalata di parole: un disastro incomprensibile),  cammina nudo per il vigneto, in preda a una sorta di temporanea infermità mentale dalla quale esce solo grazie all’aiuto dell’ingiustamente insultato (e meraviglioso) Dickie.

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Dopo aver chiesto perdono durante una cena estremamente imbarazzante, aver ricevuto la sua ricompensa, aver inziato a festeggiare in puro stile Dom Hemingway (piscina, droga, alcol, ragazze), Dom, Dickie, Ivan e le compagne di turno salgono in macchina e guidano non prestando troppa attenzione al codice della strada; anzi, prendiamo il codice della strada e innaffiamolo di vino e cocaina. Ecco. Hanno un incidente, un incidente spettacolare: i corpi percorrono traiettorie ellittiche e a proiettile di un’epicià fuori dalla norma, le collane si spezzano, gli abiti svolazzano, sembra di stare in un’opera dadaista al punto che, subito dopo, la morte ci colpisce in faccia e ci fa un male pazzesco. Ivan è morto. Una delle ragazze è morta. La fidanzata di Ivan non si trova. Dom salva la vita all’altra ragazza, Melody, che gli dice che il karma lo ricompenserà per averla salvata proprio quando ne avrà più bisogno. Dickie è salvo (sarei uscita di sala se fosse stato altrimenti) e, assieme a Dom, si accorge che Paolina è svanita, che il soldi di Dom sono in casa di Ivan e che lei, probabilmente, ha approfittato della situazione per rubarli. La corsa ebefrenica di Dom verso la villa ci mette ansia, agitazione, abbiamo la tachicardia: anche noi, per quanto lui sia scorretto e sguaiato e completamente fuori di testa, desideriamo che abbia ciò che merita. A questo punto del film ci accorgiamo che il regista (Richard Shepard) ci ha fatti affezionare terribilmente a questo improbabilmente adorabile personaggio. Paolina ruba i soldi a Dom che, tornato a casa, decide di fare la cosa più importante: riconquistare l’affetto e la fiducia della figlia Evelyn, che è ormai una donna, fidanzata con un ragazzo africano e con cui ha avuto un figlio. Dom, politicamente scorretto fino a livelli parossistici, si spreca in una serie di battute che qui potremmo benissimo definire simil-leghiste, ma lo fa con un candore derivato da quel tipo di ignoranza che viene presto estirpata (ma mai del tutto) e che gli permette, comunque, fin da subito, di apprezzare il fidanzato della figlia e il nipotino.

Nel frattempo, cerca di farsi assumere da Lestor, figlio del suo vecchio rivale a cui ha anche ucciso il gatto (motivo per cui Lestor non lo perdonerà mai e cercherà di fregarlo fino alla fine), con un epico tentativo di scassinamento di una gigantesca cassaforte in quella che è una sequenza fenomenale sia per struttura narrativa (fino all’ultimo pensiamo che per Dom ci saranno altri dodici anni di monologhi in galera), sia visimente: le tinte sono forti, accese, quasi accecanti; i giochi di sguardi intensi e funzionano come tanti fili tirati per farci sentire in tensione, come se dovessimo muoverci con attenzione per non spezzarne nessuno; la performance di Dom è a dir poco sopra le righe, maniacale: il suo modo di agire, sia nel distruggere il muro sul martello, sia nello scassinare la cassaforte con un metodo che ha dei richiami sessuali eufemisticamente definibili come “espliciti” è di grandissimo impatto e diverte e sconcerta, mentre siamo tutti lì, con il fiato sospeso, sperando che ce la faccia e non ci accorgiamo che Lestor sta solo cercando di ingannarlo.

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Ancora una volta Dom riuscirà a uscire quasi indenne da questa situazione, a ricongiungersi (poco alla volta) con la figlia e, soprattutto, ad avere una rivincita morale (e non solo) su Paolina: nel finale, spettacolare, Dom la vede entrare in un ristorante con un riccone (stile Briatore), le si avvicina, le sussurra una serie di minacce raccapriccianti all’orecchio, le sfila senza farsi notare un anello con un diamante formato ananas ed esce a testa alta, con la camminata spavalda che lo contraddistingue per tutto il film, il sorriso-ghigno-ringhio-digrignamento che solo Jude Law poteva incarnare così bene e che sembra dire: «io sono Dom Hemigway e voi no». E, per questo, lo adoriamo.

2 pensieri su “Dom Hemingway

  1. Scopro il tuo blog grazie al buon, vecchio Caden.
    E comincio con uno dei film che più mi è piaciuto nella prima metà dell’anno.
    Grande Law, forse in una delle migliori interpretazioni della carriera.
    E grande Dom, praticamente l’Hesher inglese e alcolizzato.

    • Inizio ringraziando Caden, che sa che con le cose tecnologiche sono un disastro e mi fa pubblicità. Sono due settimane che cerco di mettere dei link ai blog che seguo (tipo il suo), ma credo di avere una malattia selettiva per la gestione di cose in internet.
      Dom è stato amore a prima vista, ho capito subito che era fenomenale e, come, Hesher, è un personaggio che adori proprio perché è di una scorrettezza così sguaiata che fa commuovere!
      Ora corro a leggere il tuo blog! Grazie per il post!

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