…e ora parliamo di Kevin (WeNeedToTalkAboutKevin)

Sì, parliamone. Parliamo di questi centodieci minuti che in modo così speciale e unico sono trascorsi con fatica e sofferenza. Non fraintendetemi, il film è magnifico. La sofferenza e la fatica sono quelle che una storia di questo genere non può non suscitare, storia che dobbiamo a Lionel Shriver, eccellente giornalista e scrittrice autrice di sei libri precedenti la pubblicazione di Kevin.

La forza con cui si impone la dimensione drammatica fin dai primi minuti è portata avanti con coerenza per tutto il film, durante il quale presente e passato si sciolgono e avvolgono in flashback che ci fanno, lentamente, apparire i due personaggi principali, madre e figlio, sempre più vicini nella loro tormentata distanza. Meravigliosa è la specularità con cui vengono rappresentati entrambi, in due momenti diversi, in due giornate diverse, lavare il proprio viso con la testa nel lavandino. L’inquadratura acquatica che ne esce è uno di quei momenti di straordinaria comunione, momenti rarissimi in questa storia che non è solo la storia di un orrendo crimine, ma, e soprattutto, quella di una madre che non riesce a sintonizzarsi – come direbbe Stern – con il figlio. La rinuncia alle proprie ambizioni e al proprio futuro così come l’aveva programmato si impone per portare avanti una gravidanza che Eve (la protagonista, interpretata da una Tilda Swinton che appare quasi scarnificata nella sua sofferenza) inizia a vivere come un peso fin dall’inizio. Anche i cambiamenti che la gravidanza innesca nel suo corpo vengono vissuti in modo drammatico: magistrale è la scena dello spogliatoio, in cui una Eve completamente depersonalizzata, coperta da più strati di vestiti abbondanti, siede stanca come una bambola abbandonata sulla panca e sembra guardare aldilà dello schermo un punto che non esiste, mentre le altre madri sfoggiano con compiacimento e affetto i loro pancioni.

Eve non è una pessima madre, ma è il risultato del conflitto tra l’istinto materno, la rinuncia ai propri sogni e qualcosa che non riusciamo a spiegarci. Perché l’insoluto è quello che ci perseguita per tutto il film e, anche alla fine, ci lascia uscire di sala con gli occhi spalancati, la gola asciutta e l’incapacità di dire qualcosa. Non perché in quella domenica sera di febbraio, come spesso (sempre) accade, al cinema ci ero andata da sola, ma perché il finale ci toglie la capacità di giudicare, di dire la nostra di spiegare. A volte non c’è spiegazione, per nessuno.

A esplorare il legame madre-figlio un po’ più a fondo, i momenti filmici in cui la mancata risonanza tra Eve e Kevin entra con prepotenza in scena sono numerosi ed estremamente efficaci, al punto da aver risvegliato la fanatica della teoria dell’attaccamento (la cui versione originaria dobbiamo al lavoro di Bowlby) che c’è in me. Una delle scene più forti, a mio parere, è quella in cui, dopo aver passato un travaglio particolarmente doloroso e aver partorito, Eve, con lo sguardo perso nel vuoto, evita di tenere in braccio il figlio, come se fosse senza vita. Sappiamo che la mancanza di risposta affettiva da parte della madre può essere un fattore altamente disorganizzante per il bambino e molte ricerche hanno provato quanto il mancato contatto nelle prime ore dopo la nascita possa predisporre il bambino a sviluppare disturbi d’ansia nel corso della vita.

L’ambivalenza è la chiave del rapporto che, da quel momento in poi, diventa un incubo. A rari momenti di affetto, a volte tenerissimo, si alternano molte occasioni in cui il bambino si rapporta alla madre con astio, risentimento, quasi come se sapesse ciò che lei prova e, soprattutto, provava. Significativa e terribile è la frase di un Kevin bambino che mette Eve al muro dicendo: «Solo perché ci si abitua a qualcosa non vuol dire che ci piaccia. Come te con me».

In questo film passato e presente si alternano con coerenza: il presente di Eve Kacciadorian, una volta famosa scrittrice, ora emarginata perché madre di un “mostro”, si intreccia con il suo passato, con le immagini di una famiglia quasi perfetta, di una bella casa, di un costante conflitto con un figlio che è invece docile e affettuoso con il padre. E allora restiamo intrappolati nella terribile domanda a cui non troviamo risposta: perché è stata risparmiata solo lei?

Forse è davvero questo l’interrogativo che tiene Eve lontana dall’idea di ricostruire la sua vita fino alla fine del film (che rappresenta un lasso di tempo di due anni), quando comprendiamo che l’unico spiraglio, l’unica possibilità è quella di parlare di Kevin e parlare con Kevin.