Melancholia

Imparare a essere me 

   Il pianoforte singhiozza una melodia tenera, agitata, disperata, delicata, a tratti allegra. Quest’opera è come la malinconia che mi accompagna in questi giorni, in questi ultimi mesi, un’altalena di emozioni e pensieri con cui riesco a convivere come se fossero i miei fratelli e le mie sorelle, con cui condivido gli attimi che compongono, come un’incessante melodia fatta di molti interrogativi e poche risposte, le mie giornate. Amo questa malinconia, la respiro e allo stesso tempo mi anima. Amo ogni istante di dolce dolore che si accompagna alla consapevolezza dell’essere fuori dal coro, una voce né stonata, né meravigliosa, che si discosta dalle altre, un po’ per natura e un po’ per scelta e contemplo il silenzio rumoroso da cui la mia mente è abitata. A volte può spaccare i timpani, il silenzio. Ma è bello, se vogliamo essere semplici. Questa malinconia è meravigliosamente mia e io sono sua, stiamo bene come le ninfee in una laguna, perché siamo in equilibrio. Dopo tanto tempo mi sembra di poter dire: ecco cosa sono, questa sono io, la vera me, che ho tentato di occultare così a lungo, persa in false identità come un uccellino stordito che continua a sbattere contro al vetro senza riuscire a smettere. È solo che, dopo tanti tentativi, lo stordimento è solo la superficie, la prima, dolorosa fermata in un viaggio alla riscoperta di sé stessi. Chi ero prima di cadere a terra? Chi ero prima di interpretare tutte quelle Me in cui mi sono costretta, come in un abito troppo stretto, per poter essere amata, accettata, anche odiata, ma, per favore no, mai ignorata?

   Dallo stordimento riemerge la vera Me e il confronto con tutte le altre è atroce, terrificante, mostruoso: io le odio. Le detesto. Hanno vestito panni che non avrei mai indossato, pronunciato parole che non avrei mai pensato, vissuto vite che non avrei mai desiderato. Come se fossero delle estranee che hanno indossato la mia pelle per un po’ di tempo ciascuna, mentre io ero lì sotto, nascosta e rannicchiata. A piangere e a desiderare di morire e a interrogarmi sul perché non fossi in grado di mettere fine a tutto ciò, non solo alla mia vita in quanto tale, ma alla mia vita in quanto balletto frenetico e disperato sul palcoscenico di un mondo in cui non avevo idea di quale persona dovessi essere per trovare il mio posto. Come se ci fossero stati i nomi di tutti da qualche parte, eccetto il mio. Il mio posto sono Io. Sono stata così stupida a non rendermene conto, a cercare un’insegna al neon con scritto il mio nome a caratteri cubitali rosa nei posti più impensabili e, invece, l’insegna era nella mia testa. Ci sono alcuni di noi che si sentono a casa solo dentro sé stessi e a cui sembra necessario piangere nel vedere il riflesso del sole attraverso una vetrata, a cui sembra impossibile passare una sola giornata senza quella commozione per la bellezza e la brutalità del mondo, a cui è negata la possibilità di abbandonare il proprio senso di colpa dopo averne tratto i giusti insegnamenti e a cui, dopo un certo periodo di tempo, appare come una tortura l’idea di dover vivere senza la propria malinconia.

   Quello che non ho ancora detto, quello che turba l’aura di perfezione che questa sinfonia di sensazioni, a volte cupe e intense come la Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven, è la preoccupazione, sopita ma costante, che la malinconia torni ad essere qualcosa di diverso, di più grande, all’ombra della quale sono raggelata non appena uscita dallo stordimento dovuto all’essermi svegliata ed essermi accorta che la vera Me era tornata: il tremore intimo che si accompagna all’idea che, un giorno, senza motivo e senza preavviso, la depressione possa tornare.

   Lars von Trier è stato magistrale e delicato nell’esplorare queste dimensioni, questa mutevolezza di sensazioni che si affollano nella mente e nel corpo di chi soffre di questo male così atroce e a tratti così dolce, così soffice nel suo distanziare le persone dalla realtà, racchiudendole in un ovattato stato di ottundimento che, a volte, è l’unica protezione. E brutale è il modo in cui ha mostrato gli sbalzi d’umore, la crudeltà incontrollabile, la necessità del dolore che d’un tratto subentra alla dolcezza e alla fragilità. Tutto in una stessa persona, tutto in una stessa giornata, a volte. Che questo film sia terapeutico è fuori discussione. Per chi lo dirige, per chi lo interpreta, per chi lo guarda. Questo film è un grande regalo.

   Il tempo a cui avviene questa danza di emozioni, drammi e sospiri è il tempo dell’universo. Ogni immagine è diversa da quello che conosciamo e le figure si impongono allo spettatore in tutta la loro ieratica presenza.

   Kirsten Dunst (Justine) è un monito, più che un personaggio, in un incipit così potente e vibrante tanto da avermi fatta sentire come cucita alla poltrona della grande, gelida sala semivuota (desolazione che ancora non riesco a spiegarmi) del cinema. Wagner si adatta bene all’epicità di queste immagini, così terrificanti nella loro bellezza.

Due sorelle, due pianeti, due stati della mente così diversi che, contro ogni aspettativa convenzionale, finiscono per essere irrimediabilmente vicini. Il rapporto tra Justine e Claire (Charlotte Gainsborough) è esplorato in parallelo all’imminente avvicinamento da parte del pianeta Melancholia alla Terra: Justine sconvolge la vita di Claire, ci porta il suo modo di essere, la sua depressione. La sua condizione diviene il fondale su cui si staglia, nella seconda parte, la personalità di Claire, che rivela una forza inaspettata, messa in risalto dalle reazioni alle crisi della sorella.

   Melancholia è potente, stravolgente, inevitabile. Perché la depressione è apocalittica e, in questo scontro, rappresentato dalle evocative immagini cosmiche di cui Lars von Trier sfrutta la suggestiva natura assieme a una sonoro così profondo che sembra scavare nella nostra anima, fragilità e forza si alternano lungo un continuum labile e flessibile e passano da un personaggio all’altro con armonia: quanto la fragilità può essere schiacciante nel dover affrontare la quotidianità, tanto può rendere forti nel reagire a situazioni drammatiche, anche alla fine del mondo. Justine, verso la fine del film, diventa infatti la figura monumentale che è nell’incipit, tanto imperturbabile da apparire serena e protettiva a fronte dell’imminente catastrofe. La terrificante fine miete vittime prima di avere luogo, come accade per il personaggio interpretato da Kiefer Sutherland, così granitico nelle sue certezze al punto da perdere la forza per affrontare l’inimmaginabile al crollare di quella che era l’unico fondamento della sua sicurezza. Charlette Gainsborough sboccia in tutta la sua forza proprio in questo momento, portandoci a conoscere un personaggio davvero tridimensionale, umana in ogni sua espressione e in ogni suo gesto, umana nel vero senso della parola.

   Lungi dalla presunzione di poter entrare nella mente geniale di Lars von Trier, posso solo esprimere quello che questo film mi ha fatto sentire e provare e ciò su cui mi ha portato ha riflettere: Melancholia (il film e il pianeta) è una perfetta metafora per descrivere l’omonima condizione dell’animo umano, rendendo, allo stesso tempo, la “danza della morte” un balletto terribilmente dolce.