Horror: a love story (vol.2)

Il volume uno è disperso da qualche parte nel passato, ma mi sembra di aver abbandonato la mia classifica al film numero 5 (ricordo che non erano in ordine di struggimento affettivo nei loro confronti, ma pseudocronologico) con A Venezia un dicembri rosso shocking di Nicholas Roeg (veramente un gran film) e il passato mi riporta al passato e quindi:

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6.  Non posso fare a meno di nominare Shining (1980), il quale, al momento, mi provoca un altro genere di spavento: come si può parlarne senza rovinarlo? Ci sarebbero fiumi di “inchiostro” – se solo stessi scrivendo a penna – da stendere come un rosso – sanguinolento – tappeto per questo film, ma mi limito a dire quanto innovativo sia stato Kubrik nel dare vita a una creatura mostruosa come l’Overlook Hotel, che sanguina copiosamente attraverso le porte dell’ascensore, inganna subdolamente provocando allucinazioni dal carattere sordido e morboso e, soprattutto, vive di vita propria, come testimoniano le imponenti colonne rosse che, come arterie, sostengono l’intera struttura. Ma Kubrik ha anche il merito di aver completamente svergognato gli splatter che fioccavano da ogni dove in quello stesso periodo, in cui una trama piuttosto scadente e ripetitiva era subordinata a un’esagerazione di schizzi di sangue, budella e altre amenità. Kubrik ci ha terrorizzati e continua a farlo – cosa che non si può dire della maggior parte dei vari horror truculenti coevi, anche se ci sono delle validissime eccezioni –  risparmiando in violenza esplicita (miraccomando: non interpretatela come se la denigrassi o altro, quando ci sta bene è come le caramelle nella ciotolina di cristallo della nonna –  per dedicarsi a evidenziare al meglio le turpitudini di cui solo l’essere umano è capace.

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7. Funny Games (1997). Michael Haneke è (come forse si può capire dal mio lunghissimo post su Amour e il più recente su Benny) uno dei miei registi preferiti. La sua sublime capacità di coniugare rigore e avanguardia – nei significati – si rivela in ogni suo film. Ovunque, Michael Haneke scorge l’orrore sommerso nell’uomo e ce lo sbatte in faccia – in questo senso, Caché ha un impatto viscerale che obbliga all’esame di coscienza. Ora: SO CHE FUNNY GAMES NON È UN HORROR P.D., ma non mi importa. Nel modo più assoluto, perché in questo film è l’orrore più puro e viscerale a emergere e non è tanto ciò che vediamo – e non vediamo – sullo schermo, ma è il modo in cui quello che accade si riverbera sullo spettatore a terrorizzare. Qui è l’intimità di una famiglia a essere violata, ma in modo composto ed educato, inizialmente: non c’è nessun gigante pseudo posseduto che irrompe nella villa, nessuna motosega, nessuna reazione di rabbia incontrollata da parte dei «cattivi». No, sono la calma e l’ordine a regnare e questa programmazione del comportamento di questi ragazzi sociopatici resta controllata e precisa anche quando, dopo aver presumibilmente sterminato la famiglia dei vicini, vedendo arrivare i protagonisti di Funny Games, decidono di fare lo stesso con loro. Non era previsto, eppure sembra tutto perfettamente organizzato e pianificato. Non possiamo nemmeno darci una spiegazione per l’orrore a cui assistiamo, perché è lo stesso Haneke, in più punti del film, a vanificare questo tentativo e, soprattutto, il regista rompe la fragile convenzione che tiene legato il rapporto causa-effetto che solitamente attribuiamo agli eventi della vita, concretizzando, a livello cinematografico, il pensiero di Hume. Con Funny Games – di cui dieci anni più tardi il regista farà una versione americana, identica ma diversa; e, tra parentesi, se ti chiedono di fare un remake del tuo fiochissimo film del 1997 hai tutto il diritto e il dovere di dire: okay, ma lo faccio io e lo faccio uguale (salvo per i pantaloncini del personaggi di Paul che, grazie al cielo, nella versione US si sono visibilmente allungati, perché in quella austriaca erano di una cortitudine inquietante che abbacinava al punto da distrarre dal resto da quanto mettevano a disagio) – Haneke crea due personaggi che con gli altri cattivi dell’horror non solo possono competere, ma che rispetto a loro risultano ancora più spaventosi perché sembrano così perbene e carini e le divise, candide, terse e stirate, sono più raccapriccianti della maschera da hockey di Micheal Myers, della gigante salopette – terribile! – di Jason, del volto di Leatherface o del vestito di pelle umana di Buffalo Bill.

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8. William Friedkin. Lo adoro. Non è un film, è un uomo, ma chissenefrega. Friedkin ha dato vita a uno degli horror che hanno segnato la storia del cinema e hanno terrorizzato intere generazioni (la mia mamma non ha dormito solo per averlo sentito raccontare) e su L’Esorcista, è stato scritto e detto davvero molto. Questo film è una metafora della povertà politica a religiosa che diventava sempre più evidente negli anni Settanta e, soprattutto, della labilità dell’identità umana. Oltre a essere un horror cazzutissimo (rivisto l’estate scorsa sul grande schermo e devo ammettere di essermi voltata più volte sulla via del ritorno per controllare che non ci fosse non so neanche io cosa). La cosa che ancora mi terrorizza è Reagan, che con il suo basino a patata e i vestitini da educanda sembrava fosse pronta a sparare arcobaleni dalla pancia stile orsetti del cuore da un momento all’altro e invece no, se ne esce con una serie di urla gutturali il cui contenuto è indimenticabile. Molto del cinema di Friedkin ha uno stretto rapporto con l’orrore, in senso più generalizzato e, in tutta sincerità, mi sono avvicinata a Friedkin più per un’opera complessa che fonde horror, thriller e psicologia come Bug (2006) e il più recente, ma straordinario, Killer Joe (2012). In Bug un fragilissimo Micheal Shannon interpreta la parte di un ex militare convinto di essere perseguitato dal governo e che coinvolge nella sua follia una donna con una situazione molto problematica. L’incontro tra i due, che inizialmente appare come una svolta positiva nelle loro vite, si trasforma in un’allucinatoria e claustrofobica folie a deux in cui la paranoia emerge in modo esplosivo dai racconti di lui, soprattutto riguardanti complotti e ben più inquietanti allucinazioni microzooptiche (il protagonista e, più avanti, anche il personaggio interpretato da Ashley Judd, vede afidi da tutte le parti e si provoca ferite di cui incolpa gli insetti) e si fa strada nella mente di lei con estrema facilità. Una tempesta perfetta di dolore e follia. Insomma, i due si grattano via cose che non ci sono a morte e poi si danno fuoco. Giusto per spiegare cosa intendo con “follia” quando si parla di Friedkin, che è uno che le cose le fa in grande. Per quanto riguarda Killer Joe, che muoio dalla voglia di rivedere al più presto, Friedkin dipinge un Texas dalle tinte cupe in cui sembrano non esserci possibilità di evoluzione o di redenzione per nessuno dei personaggi. Un Texas in cui nulla c’è di buono, come, a un certo punto del film, il personaggio interpretato da Emile Hirsch dirà, ottenendo in risposta dalla sorella la sconcertante affermazione che lì fa bel tempo. E, invece, per tutto il film non fa altro che piovere. Il regista costruisce in modo geniale un palcoscenico su cui i personaggi si muovono in un teatro degli orrori. Orrori che hanno tutti un motore umano e interiore, perché sono resi possibili dalla cruda avidità della famiglia protagonista del fim. Killer Joe non è un horror in senso stretto, ma mostra l’orrore della mente umana nel suo più cruento dispiegarsi e, sebbene quasi tutti i personaggi meritano il biasimo dello spettatore, Joe è il vero e proprio emblema di questo modo di essere, interpretato da un – sorprendentemente – fenomenale Matthew McConaghy. Nota sublime: la faccia di Emile Hirsch sfasciata dalle lattine di zuppa confezionata è un modo brillante di distruggere lo stereotipo dell’americanità tutta casa e famiglia.

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9. American Horror Story (la prima, per ora).  Okay, premessa. Sono molto, molto sensibile a temi come: adolescenti disturbati (e peggio è, meglio è, vedi …e ora parliamo di Kevin, o Elephant), spettri, architettura liberty (condizione sufficiente a catturare la mia piena attenzione, di solito). E AMHS inizia con ciascuna di queste cose in modo a dir poco sovrabbondante. Violet (Taissa Farmiga) è un’adolescente introversa (e parecchio scazzata) e darkeggiante; Evan Peters è uno pseudo-Kurt Cobain giovincello (che poi ha due anni meno di me e vi assicuro che io non sono un’adolescente e quindi non se la beve nessuno che lo sia anche lui: a sedici anni non avevo compagni di classe così, ma assomigliavano – nel migliore dei casi – allo scricciolo di Malcolm in the Middle, cioè Malcolm, appunto) con tendenze che definire sociopatiche sarebbe solo una pia sottostima ed è in cura dal padre di Violet, uno psichiatra fedifrago che tende a girare – di notte e nel tempo libero, mentre una pletora di gente squilibrata si dà il cambio sul suo divano – nella nuova casa liberty (in cui si è trasferito perché la sua ultima tresca ha avuto conseguenze apocalittiche) completamente nudo e a mettere le mani sui fornelli, mentre qualcuno che evidentemente non è lui – ma è un fantasma (!), passatemi il punto esclamativo ma qui l’entusiasmo mi salta proprio fuori dai polpastrelli – si avventura, avvolto in una tutina di lattice, verso la stanza della pluritradita moglie e le fa la festa. Intanto la gente muore, si scopre che la casa non è infestata, ma ridefinisce proprio il concetto di “infestato”, la famiglia inizia a vivere in preda al terrore, la vecchia cameriera (direttamente da Six Feet Under) appare allo psichiatra nudista con l’aspetto di quando era giovane, bella e un po’ mignotta, la figlia affetta da sindrome di down di una spaventosa Jessica Lange – che è sempre magnifica ma fa una paura che la mette direttamente al secondo posto dopo la Grace Zabriskie – ci fa venire settemila infarti a puntata, Violet e pseudo-Kurt si innamorano e sono adorabili se non fosse che lui ha sterminato mezzo liceo ed è morto da tempo ed è solo un fantasma con delle turbe. E poi c’è la coppia di spettri gay che desiderano un bambino e vogliono uccidere un neonato per avere un figlio fantasma che non raggiungerà mai il quattordicesimo anno di vita o l’età legale in cui si diventa dei rompipalle atroci. Eppure (o, proprio per questo) io questa serie la adoro. Per i titoli, che fanno gelare il sangue nelle vene; per il fatto che Brad Falchuck sembra aver pensato “okay, prendiamo tutti gli elementi horror che ci vengono in mente e buttiamoli dentro un po’ come capita e vediamo cosa ne viene fuori, ma teniamoci gli alieni e le streghe per il futuro”; per quelle meravigliose finestre stile liberty; per Violet e pseudoKurt (ero l’unica a fare il tipo per loro?); per i flashback truculent(issi)mi sulla storia della casa che fanno di alcune puntate dei mini film horror a sé stanti (quello sul medico è fenomenale); per Denis O’Hare, che se dovessi incontrarlo di notte ma anche di giorno senza preavviso ormai mi salterebbe almeno mezza coronaria, ma poi lo abbraccerei perché fa anche tenerezza e per Jessica Lange, che dopo Music Box è il mio idolo; per la regia che è da saltare sulla sedia da quanto è sofisiticata e per le sopracciglia di Zachary Quinto. Ma, soprattutto, perché è sovrabbondante, incasinata, confusa, barocca e anche un po’ pasticciata e la cosa mi piace da impazzire.

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10. Cigarette Burns (del Carpenter). Premetto che l’ho visto una volta sola, di notte, alle tre e qualcosa del mattino, forse erano le tre e dieci, perché lo davano su raie per il ciclo Masters of Horror (anche quello di Takashi Miike è fantastico, mentre quello di Dario Argento, beh, alzo le spalle e non commento, perché sento di volergli troppo bene per infierire, fa già da solo) e, quindi, non posso entrare nel dettaglio. Ma è una delle cose horror migliori che abbia mai visto e non posso non scriverne. Allora, la storia è questa: Udo Kier è un vecchio cinefilo che incarica l’uomo più inespressivo del mondo, tale Kirby (che ha bisogno di soldi), di ritrovare un film avvolto da un alone di mistero. La fin absolue du monde, un film che sembra aver dato luogo a una sorta di murder spere, un amok a un festival del cinema. Il film racconta le peregrinazioni di Kirby alla ricerca del film, ma questa è la cosa di cui ci importa di meno. Quello che conta è: primo, Kirby è disturbato perché traumatizzato dal suicidio della sua fidanzata e questa cosa diventa molto importante a un certo punto e ci fa un po’ strizzare il cuore; secondo, il livello metacinematografico è già racchiuso nel titolo, dove la storia della bruciatura di sigaretta nelle vecchie pellicole assume un ruolo fondamentale; terzo: il film manda fuori di testa le persone perché hanno ripreso un angelo che viene torturato! Credo non ci sia altro da dire, se non: guardatelo immediatamente! Io sono rimasta completamente ipnotizzata e inquietata (non spaventata, ma avevo proprio quella sensazione nelle ossa che ti porti dietro anche quando vai a dormire e che ti fa tenere gli occhi sbarrati e perdere una notte di sonno – che già era mezza persa perché il film iniziava verso le tre). La mano di Carpenter è quella che rende La fin Absolue du Monde una creatura viva, assetata di sangue e morte, una serie di immagini confuse e dalle tinte accese con creature bizzarre che ricordano i Cremaster di Matthew Byrney e il pesante humor – sul cinema stesso – fanno di Cigarette Burns un piccolo capolavoro horror.

4 pensieri su “Horror: a love story (vol.2)

  1. Non l’ho voluto vedere perchè essendo uno shot by shot del primo film ho preferito tenermi il ricordo di quello.
    Non l’ho visto (su laeffe lo saltai 3 volte e in rete non si trova) ma sarà uno dei prossimi streaming condivisi visto che tra 10 giorni esce su mymovies 🙂

    son 2 anni che lo inseguo

    • Fantastico! Spero di riuscirei collegarmi e vederlo assieme. Io lo adoro. Adoro ogni singolo fotogramma dei film di Haneke. Il mio regista preferito è sempre stato David Lynch e lui ha qualcosa che nessuno avrà mai e nessuno potrà mai prendere il suo posto nel mio cuore. Ma Haneke è a un soffio e, a differenza di Lynch, che qualche cosa non proprio meravigliosa l’ha fatta (ma si perdona in automatico e comunque ogni suo errore è frutto della sua coerenza, forse troppo estrema, al suo pensiero), Haneke non ha mai sbagliato un colpo. Non ha fatto un film che sia uno che si possa definire brutto. E ha un’estetica, un rigore, una decisione in quello che dice e in come lo dice che sono irraggiungibili.

  2. Non ho visto Cigarette Burns, AHS e il remake di Haneke (questo volutamente), quindi non posso leggerne.
    Per il resto Shining è il numero 1 della mia vita e L’esorcista sarebbe nei primi 5 (dico sarebbe perchè quando feci la classifica io presi solo film usciti dopo la mia data di nascita).
    Ottime entrambe le recensioni, iol ancora non ho mai fatto quella di Shining…

    Grandi Bug e Killer Joe!

    • Perché Funny Games US non l’hai voluto vedere? (non è un attacco – anche se con Haneke sono iperprotettiva – ma curiosità pura).
      Shining è magico! Hai visto il doc Room 237 di Rodney Ascher? Io l’ho visto una notte su laeffe e l’ho trovato eccezionale!

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