Essere umani nel cinema

Essere nel mondo è già terribilmente difficile, complicato e la vita non fa che configurarsi come un groviglio di alternative e non è vero che non esistono scelte sbagliate. Esistono eccome e il cinema, come un colpo in mezzo agli occhi, che arriva dritto al centro della mente, riesce a mostrarle in tutte le loro sfaccettature. Quello che mi ha sempre colpita, forse anche perché riflette chi sono e quello che ho vissuto, è stato come alcuni grandi registi sono riusciti a rappresentare quella che è una delle qualità peggiori dell’essere umano: l’emarginazione del diverso. Che poi è un tema trito e ritrito e lo si ritrovi ovunque è vero, ma, ciononostante, questa perenne vaporizzazione dell’argomento (spesso fatta a tinte leggere in cui è l’outsider a essere emarginato dagli elementi più conformi, ma, come in ogni last minute rescue che si rispetti, riesce a provare il suo valore e ad avere ciò che gli spetta) non è stata sufficiente. O efficace. Perché fingere che alcuni di noi non siano umani a volte risulta fin troppo comodo.

Così ho deciso di scrivere di quei film che mostrano l’umanità sotto un’altra luce, quella estrema, deformante e distorta della mostruosità. Per me è stato come ritrovarmi davanti a un quadro di Bacon, dove il riflesso nel vetro rimandava un’immagine di me completamente nuova. Quel miscuglio di forme e colori che si sovrapponeva alla mia faccia mi sembrava il ritratto più adeguato che di me si potesse fare.

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Tre sono i film che meglio rappresentano l’umanità estrema e, tra questi, L’homme qui rit (1928) è stato una prova artistica meravigliosa, nata dalla visionaria opera del perfetto Victor Hugo, il quale è riuscito a trasporre il suo travaglio esistenziale con una densità di sentimenti tale da rendere il suo romanzo vivido come un quadro, trasposto su pellicola con grande rispetto artistico dal regista Paul Leni. Sempre nell’epoca a cavallo tra il muto e il sonoro, Tod Browning (pochi anni dopo, nel 1932, autore del meraviglioso Freaks che rientra tra i capolavori sull’umanità) ha dato vita a un’opera di grande intensità: The Unknown (1927), in cui un bravissimo – come sempre – Lon Cheney, interpreta uno dei ruoli più profondi, a mio parere, del cinema di quel tempo. Qui la deformità, prima finta per interesse e poi procurata per amore, un amore che verrà infranto, è il mezzo per raccontare le sfaccettature dell’animo umano, dei tormenti della psiche e, soprattutto, di quanto essere umani possa essere meraviglioso e, allo stesso tempo, terrificante.

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Stesso significato, diverso significante, la meravigliosa opera di David Lynch, The Elephant Man, è il film che maggiormente rappresenta questo concetto. A guardare il film a occhi chiusi, The Elephant Man non può che sembrare una prova della straordinaria umanità che certe persone possiedono. Solo che, quando si alzano le palpebre, la prima impressione che abbiamo è che John Merrick non sia un uomo come tutti gli altri. Quello che trovo interessante è che il film si giochi in gran parte su questo aspetto, su quanto John Merrick sia diverso dagli altri. Non per le sue deformità, ma per la bellezza della sua anima. Questa pellicola (ma quanto è bello quando si è in sala e sentire il plat-plat-plat della pellicola che gira?), che risale al 1980, ha sfiorato l’Oscar e l’ha perso per un soffio. Non fraintendetemi, sono una di quelli che ha amato Platoon in ogni suo fotogramma, ma ho amato questo film ancora di più. Due argomenti terribili, solo che la guerra era finita, la crudeltà umana, invece, è eterna.

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Non c’è un fotogramma del film di Lynch che non sia perfetto: ogni inquadratura sembra un quadro, la fotografia è un’opera d’arte e i suoni, da quello del vento alla musica da circo nei momenti più drammatici – soprattutto quando il veramente mostruoso Bytes si fa padrone della vita di Merrick, trattandolo come un oggetto -, contestualizzano non solo la storia, ma, soprattutto, il dolore. La regia di Lynch funge da cornice alle emozioni provate da John Merrick, dando loro una forma narrativa, ma, prima di ogni altra cosa, questo è un film totalmente emozionale e viscerale. Per tutta la durata di The Elephant Man, lo spettatore è in piena empatia e, la totale mancanza della stessa nei personaggi che attorno a lui gravitano, è ancora più sconvolgente e commovente: la completa mancanza di senso di quello che è socialmente considerato un essere umano, contro la reale umanità di quello che viene ritenuto un mostro. John Merrick, dopo aver subito sofferenze inenarrabili, riportato alle cure del dottor Frederick Treves (uno straordinario Anthony Hopkins), lo ringrazia e gli dice di sentirsi felice, perché è amato.

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La deformità dovuta alla sindrome di Prometeo, infatti, non è che una delle innumerevoli caratteristiche che si possono attribuire a John Merrick, l’uomo. Ed è così che lui si sente, un uomo in tutta la sua interezza, al punto da rendere ancora più straziante la frase, pronunciata quando viene inseguito da una folla inferocita che lo addita come se fosse una creatura raccapricciante: «Io non sono un animale! Sono un essere umano! Sono… un… uomo », un’affermazione che si guadagna lo status di preghiera, non univocamente rivolta a chi lo ha trattato con malignità e disgusto, ma anche a coloro che si sono interessati a lui quando è diventato un intrattenimento. Terribile è la scena in cui viene ubriacato per far pagare e divertire dei balordi che, come umiliazione finale, gli mostrano, mentre è sotto l’effetto dell’alcol, la sua immagine allo specchio, spaventandolo.

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Quello che disturba maggiormente nella visione del film di Lynch, quello che lascia il segno, non è la deformità, ma la possibilità che qualcosa che così tanto abbiamo agognato, come l’inclusione nella società, non valga la pena di dover rinunciare alla nostra identità e integrità. E tanto è dolce l’accompagnamento di John verso la sua imminente morte, così è dolorosa la separazione da lui anche per lo spettatore, commosso, stupito e, soprattutto, ammirato, dalla sua improbabile, perché immensa, umanità.

«Mai… mai… Niente morirà mai… L’acqua scorre, il vento soffia, la nuvola fugge, il cuore batte… Niente muore».

(Lydia Lisle)