Boyhood

Richard Linklater e Ethan Hawke sono una coppia che funziona. Un po’ come lo sono stati Hawke e la Delphy nella trilogia di questo brillante regista che, ancora una volta, riesce a mettere in scena una storia piacevole, scorrevole, che si segue senza fatica nelle quasi tre ore di rappresentazione.

Ma cosa rende Boyhood speciale? La modalità di realizzazione: dodici anni di riprese, un frammento per volta, per seguire il protagonista della storia e la sua famiglia nella transizione da bambino a uomo. La storia è             quella di Mason (Ellar Coltrane), che vive con la sorella e la madre in Texas, mentre il padre (Ethan Hawke), una figura assente, vive in Alaska. Una famiglia come tante, con un divorzio alle spalle, una mamma (Patricia Arquette) amorevole e affettuosa che fa il meglio che può, uno spaccato di America come se ne trovano tanti nel cinema indipendente contemporaneo. Niente di banale, niente di fuori dal comune. Il punto, infatti, è proprio questo: Linklater non va a caccia dell’eccezionale, dello straordinario, della tragedia. Linklater cerca di fotografare la normalità – qualunque cosa voglia dire, come ci viene fatto intendere a una certo punto del film -, di tagliare una fettina di America e mostrarcela attraverso i suoi occhi e quelli di un ragazzo che cresce, commette i suoi errori, ce la mette tutta non per fare qualcosa di straordinario, ma per trovare se stesso, per essere se stesso e diventare la versione di sè che più gli piace.

Non è tanto il tema, quanto lo svolgimento: a parte qualche sequenza che procede per gradini e fa avvertire un andamento poco fluido della narrazione – ma solo all’inizio -, questa è una storia che scorre senza fatica e abbiamo proprio l’impressione di essere lì, con Mason e tutta la sua famiglia, a sperare che i bulli non gli diano fastidio a scuola, che con la sua ragazza vada a finire tutto bene, che diventi un bravo fotografo, che sia felice, insomma. Un po’ quello che speriamo per noi stessi. Quello che il film racconta è davvero la storia di Mason e, sicuramente, ci sono dei coming of age meglio sviluppati, più profondi e speciali nel cinema contemporaneo (già Mud, ad esempio, ci fa fare quel salto verso l’adolescenza più matura con Ellis ma in un modo totalmente diverso, più intenso), ma con Boyhood viviamo tutte le trasformazioni di Mason, tutti i tagli di capelli di mamma Arquette, i cambiamenti (impressionante quanto siano marginali) di un Ethan Hawke che nella parte del padre è dinamite pura ed è totalmente nel suo elemento in questo racconto di formazione in cui tutti hanno un ruolo ma nessuno prevale sugli altri. Un po’ come nella vita, alla fine è tutta la nostra famiglia a darci forma, con i pieni e i vuoti; con la presenza, ma anche con l’assenza. E tutto sembra scorrere in modo così naturale anche nei momenti peggiori, quelli più drammatici, quelli che ti fanno pensare “ecco, adesso va tutto a rotoli” (anche nella vita vera) e, invece, alla fine vediamo che Mason ce l’ha fatta. E che starà bene.

2 pensieri su “Boyhood

  1. Ma a volte per film di un’oretta e mezza butti giù un papiro e invece per questo qua mi fai una rece “trattenuta”.
    Vacce a capì qualcosa con te… 🙂

    Trattenuta sì, ma hai detto tutto l’essenziale.

    E’ vero, l’intensità non la fa da padrone ma credo che, come dici, ci sia un voluto lavoro di sottrazione per raccontare la normalità

    • Infatti. Credo che Linklater sia riuscito così bene nel suo intento che, da spettatrice, sento di aver assistito alla vita di questo ragazzo e, se volessi soffermarmi su certi frame o certe sequenze – quella in cui il padre gli regala il black album l’ho trovata magnifica e anche sintesi di tutto un rapporto, esplosivo a piccole dosi – sarebbe un incubo, non si finirebbe più. E non nascondo che, in effetti, un Take Shelter che dura quasi la metà mi ha fatto scrivere di più. Ma il merito di questo film è proprio il suo non essere affatto disturbante, ma sinceramente e genuinamente piacevole – e, purtroppo, a me questa cosa bellissima mi inibisce un po’ la scrittura! 🙂

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