Winter Sleep

Okay, premessa: ogni volta che sto per scrivere di un film particolarmente significativo, vengo colta da una sorta di ansia da prestazione per cui inizio a convincermi di: a) non aver capito niente del film; b) di aver capito tutt’altro rispetto a ciò che voleva il regista (e da qui mi sa che davvero Lynch DOVEVA essere il mio preferito, perché, come con Magritte, puoi capire un po’ il cavolo che ti pare); c) mi pare di macchiarmi di una orrida forma di presunzione per cui cerco di spiegare. Io non voglio spiegare nulla, io sto interpretando un film che mi è piaciuto, che mi ha emozionata, che mi ha fatto riflettere e che, assieme ad altre cose, mi ha tenuta sveglia la notte.

Winter Sleep è un film complesso e, questa complessità, la deve alla forte impostazione teatrale rappresentata in ambienti domestici e intimi per cui ci risulta impossibile non fare i conti con Checov, la cui influenza è evidente. Ceylan, che è un regista che non conosco bene e su cui non sono in grado di esprimermi come vorrei, attinge al teatro, al cinema, alla letteratura e alla filosofia per fare un’unica cosa: costruire e distruggere, sotto i nostri occhi, un uomo. E lo fa pezzo per pezzo, poco per volta, con una grazia e una cura per i dettagli che rendono questo processo una sorta di danza fluida e inevitabile. Mi spiego (non vorrei eccedere in poesia): la fotografia delicata e asciutta e i piani sequenza (io ne ho contati almeno dieci, ma potrebbero essere di più) ci portano per mano nella vicenda e all’interno del personaggio. La mano del regista c’è, ma non si vede. C’è proprio nella misura in cui con tanta discrezione ci porta nel mondo dei personaggi e lascia che siano i dettagli a dirci quello che vuole comunicare, con una delicatezza poetica che mi fa pensare a Tarkovsky. Questa è una storia triste, è un lamento e come tale l’unico sottofondo sonoro è costituito dalla Sonata in la maggiore di Schubert, un tributo a un altro film disperato di cui la bellissima sonata costituiva l’unica colonna sonora, Au hasard Balthazar di Bresson.

Il protagonista attorno cui tutto ruota è Aydin, un ex-attore di teatro, benestante, che dirige un albergo caratteristico il cui nome, giusto per aiutarci a cogliere l’evidente debito con il teatro, è Hotel Othello. La fortuna di Aydin risiede nell’aver ereditato delle proprietà che lascia gestire ad avvocati e a quello che sembra essere un suo tuttofare, per cui può permettersi di passare il tempo a raccogliere materiale per scrivere un volume sul teatro Turco e redigere articoli-invettiva per un giornale locale (Voci dalla Steppa) il cui bacino di utenza è principalmente costituito da insegnanti di piccole scuole. Mentre è sul furgone guidato dal suo tuttofare, Aydin viene colpito: quello che vediamo è una pietra che infrange il finestrino e quasi manda il furgone fuori strada. I due uomini si spaventano e noi con loro. In realtà non succede nulla, nessuno è ferito, il furgone continua a funzionare, eppure siamo tesi, agitati. Il bambino che ha scagliato il sasso è Ilyas, figlio di un affittuario di Aydin cui hanno da poco pignorato alcuni oggetti. Ceylan fa quello che fa Ilyas col finestrino del furgone: incrina e lentamente demolisce un personaggio. Il fotogramma in cui vediamo il volto di Aydin dietro al vetro in frantumi ci dice già tutto su quello che sta per succedere.

Aydin ha una moglie giovane, bella e intelligente (lo capiamo nei discorsi filosofici che intavola con la sorella di Aydin, Necla), Nihal, il cui risentimento nei confronti del marito – che evidentemente non ha fatto che darla per scontata nel corso degli anni passati assieme – è evidente già dal suo ingresso in scena: il marito le legge una lettera di una sua lettrice che gli chiede di aiutarla con i suoi corsi per donne non alfabetizzate, ma si sofferma sulla pletora di elogi che la donna muove nei suoi confronti. E lo fa con un compiacimento che risulta tanto più irritante quanto più lui finge disinteresse. Un tremito passa sul volto di Nihal: lei lo odia. Lo sappiamo da subito. E questo è uno degli aspetti principali trattati dal regista: la morte di una relazione. Qui il richiamo a Scene da un matrimonio è fortissimo, così come il debito nei confronti di Bergman emerge anche nell’approfondimento del personaggio (e dei personaggi in generale) che raggiunge il livelli di profondità de Il posto delle fragole. Ma Ceylan fa molto di più che mostrarci la fine di un amore, ci mostra la distruzione di qualunque relazione significativa di Aydin. La fine di Aydin stesso, in un certo senso. E ci arriva distruggendo i suoi rapporti con esseri umani in carne e ossa. Con una moglie diventata ormai una creatura quasi mostruosa, nel suo piccolo, proprio per il rancore che l’ha consumata e con una sorella, Necla, dotata di un’intelligenza brillante, resa talmente infelice dal fratello e dalla noia cui è inchiodata, da ritrovarsi a rimpiangere un matrimonio fallito con un uomo – da quanto possiamo capire – meschino.

Aydin è il personaggio più autoindulgente del cinema contemporaneo: i suoi articoli sono impregnati di un amore per sè stesso che esclude una qualsiasi replica, come gli fa notare Necla, che gli dice che vorrebbe che la sua soglia nell’autoingannarsi fosse bassa quanto quella del fratello; anche quando ammette di essere nel torto, in realtà sta solo affermando nuovamente e con maggior forza la sua posizione. Tutto questo sempre nella convinzione di avere ragione. Di non poter fare altrimenti. Di essere nel giusto. E questo dettaglio emerge nella conversazione con lo zio di Ilyas, Hamdi. Hamdi è un imam, è povero e deve gestire un fratello appena uscito di prigione, quasi perennemente ubriaco e dal temperamento estremamente violento – non che non abbia motivo di reagire male, ma l’iperreazione che questi ha nei confronti del pignoramento prima e di Aydin poi, ci impediscono di empatizzare completamente con lui. Hamdi va a chiedere scusa ad Aydin per il finestrino, per i mesi di affitto arretrato. Hamdi si umilia, anche quando è già abbastanza umiliato dalla povertà e dalla vita e lo fa con un coraggio che non è nemmeno il coraggio nobile cui ci si può aggrappare in queste situazioni, ma il coraggio dettato dalla consapevolezza che, se non si scusa, la situazione non potrà che peggiorare. È un coraggio debole e fragile perché disperato. Eppure Aydin gli dice che non è lui a occuparsi degli affittuari, ma sono gli avvocati. Ma ora che sa chi è Hamdi e quali sono i suoi problemi l’autoindulgenza del «non posso farci nulla» non regge più, eppure lui continua ad aggrapparcisi. Aydin vede le scarpe sporche dell’imam fuori dalla porta e le sposta con un gesto del piede e l’aria schifata, non riuscendo a fare altro che a disprezzare un uomo estremamente modesto e semplice, colpevole solo di essere animato dal coraggio più pavido che possiamo immaginarci.

L’ultima mezz’ora è una rapida agonia, in cui Nihal e Aydin, separatamente, cercano di agire al di fuori dei loro schemi, ma, così facendo, non fanno altro che reiterarli, che darsi ragione a vicenda sulle loro conclusioni più meschine riguardo l’altro ed emerge ancora con maggiore forza la crudeltà di Aydin. Se per un momento, quando libera il cavallo, un cavallo che desiderava possedere un po’ per attirare i clienti, un po’ per affermare ancora in un altro modo il suo potere e il suo controllo, si apre uno spiraglio, l’uccisione della lepre, con uno sguardo terrificante che passa sopra il mirino del fucile e arriva dritto allo spettatore, soffoca ogni speranza. E, per me, la lettera finale alla moglie, tantissime belle parole che lui non sarà mai in grado di pronunciare, forse annuncia una primavera dopo il gelo dell’inverno, ma forse non è altro che l’ennesimo atto di autoindulgenza di un personaggio che non può amare altri all’infuori di sè stesso.

7 pensieri su “Winter Sleep

  1. ciao, ho visto il tuo commento qui (http://ilbuioinsala.blogspot.it/2014/10/al-cinema-recensione-il-regno-dinverno.html) e sono venuto a frugare nel tuo blog.
    ho letto la recensione-monstre sul film, si capisce subito che è un film che ti ha colpito moltissimo, anche a me ha fatto un grande effetto, per me è un film grandissimo, che parla a noi senza trucchi.
    anch’io ne ho scritto tanto, per i miei standard quasi aforistici, chissà cosa ne pensa il nostro amico del buioinsala 🙂

    perché non togli il CAPTCHA Code?, è una perdita di tempo

    • Siccome non sono molto tecno-abile, se qualcuno mi illumina su come si toglie il captcha su altervista mi fa un favore IMMENSO!
      Detto ciò, ora corro a leggere quello che hai scritto tu! Finché non scrivo una recensione non leggo niente sul film in questione, ma, dopo, mi piace confrontarmi con altri e, soprattutto, rendermi conto di non aver notato certe sfumature. Tipo il richiamo a Gogol citato da Giuseppe, poi ci ho pensato e ho detto: caspita, è vero! Eppure io ho prima visto altro. È sempre bello condividere quello che un film è in grado di dare e quanto varia da persona a persona. Grazie per il tuo commento!

  2. La migliore rece che ho letto su Winter Sleep.
    E ne ho lette tante e di gente brava.
    Smetti di sminuirti.
    Ste rece restano qui, non scompaiono.
    Prima o poi verranno fuori.
    E smetti de fa la furba de scrive all’inizio non c’ho capito na sega, non so che dire bla bla bla, hai praticamente analizzato ogni singolo fotogramma.
    Va a letto va.
    Salutame la mamma

    • Grazie. Però tutta sta insicurezza è vera. La paura di scrivere qualcosa che sia solo decente o carino, ma che non catturi davvero tutto quello che il film mi ha evocato è sempre tanta (con Amour è stato il peggio, perché quello per me è proprio un film speciale). Winter Sleep mi ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. In un certo senso il regista mi ha messo proprio nella condizione di notare anche le mie mancanze, senza fare niente di diretto (nei miei confronti). Mi pare che abbia fatto filmicamente quello che ha detto Necla, metterci nella condizione di notare da soli il nostro “male”, le nostre mancanze.
      Mia mamma mi ha chiesto due giorni fa se leggevo ancora il tuo blog e come stavi! Synecdoche le è rimasto nel cuore (e come non potrebbe).

      • Secondo me sei stata un filino troppo dura con Aydin ma non c’è una riga che hai scritto su di lui che cambierei.
        Poi sei donna, è normale.
        Dì alla tua mamma de preparamme qualcosa de bono e se fa na bella cena parlando di sineddochi e metonimie

        • Guarda che i miei sono vegetariani e io vegana, quindi “qualcosa di buono” dipende dai punti di vista! Comunque fa delle lasagne da paura, te le faccio spedire e si fa una bella skype-conversazione su quanto era perfetto PSH per quel ruolo che è SUO.
          Aydin mi ha veramente irritata, ma proprio in modo viscerale, lo devo ammettere. C’era forse un po’ troppo il mio parere personale nella recensione, ma mi ha colpito il modo in cui il personaggio riesce a essere meschino e fastidioso – per me – pur senza fare niente di apertamente orribile. Mi ha creato un disappunto quasi irrazionale e secondo me anche in questo sta tutta la bravura di questo regista che mi vergogno orrendamente di non conoscere affatto. Devo rimediare immediatamente (magari non immediatamente, devo ancora digerire WS!) con Uzak e C’era una volta in Anatolia.

          • “Guarda che i miei sono vegetariani e io vegana”

            mi sono fermato, non ho letto niente di quello che segue, lo shock è stato troppo grande

            ( 🙂 🙂 🙂 🙂 )

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