Vizio di forma

Vizio di forma è come una bella canzone triste, una di quelle che suonano bene, che ti fanno anche un po’ ballare, scuotere le spalle, dondolare la testa, ma, quando ti metti ad ascoltarle con attenzione, ti spezzano il cuore.

Devo premettere che, tra i registi contemporanei che ancora possiamo considerare come giovani, Paul Thomas Anderson è tra i miei preferiti. È poetico senza essere forzato, è sincero, onesto, eppure nasconde i significati più profondi tra le pieghe delle storie che racconta e, questo, è un grande pregio. Forse un pregio che si era un po’ perso in The Master, meno strutturato, ma che comunque io ho adorato oltre ogni limite e tutt’ora ritengo una delle migliori cose viste nel 2012, grazie anche all’interpretazione di Philip Seymour Hoffman. Sono andata a vederlo tre volte – sarà anche un comportamento compulsivo e preoccupante, ma quel film mi ha lasciato degli strascichi emotivi non indifferenti. Questo per prepararvi al fatto che parto sempre con un’inclinazione positiva nei confronti di Paul Thomas Anderson, anche perché uno che ha fatto un film bello dietro l’altro, con alcuni capolavori da mandibola al pavimento (Magnolia, Punch drunk love che è di una bellezza straordinaria, ma pure Boogie Nights dove PSH aveva una parte marginale ma c’è una delle sue scene più impressionanti e quella bomba di significati che è Il petroliere, tipo), ti crea delle aspettative – e mi aspetto lo stesso anche dagli altri giovani registi che apprezzo al momento.

L’unica preoccupazione che avevo al riguardo era l’assenza di Philip Seymour Hoffman, che era una costante, o quasi, nei film di PTA. Anzi, ero un po’ preoccupata anche per Thomas Pynchon, uno scrittore che non conosco (ancora) bene, ma a cui voglio bene di già. Sì, lui è uno che ha questa ironia sagacissima e triste allo stesso tempo ed è bravissimo a utilizzare il passato per parlare del presente e a rendere un soggetto specifico (come l’11 settembre in La cresta dell’onda) atemporale e universale e utilizzarlo per parlare del soggetto stesso con una cognizione di causa solidissima e per parlare di una cosa Altra con una sensibilità che fa venire giù l’intonaco dalle pareti.

Bene. Thomas Pynchon e Paul Thomas Anderson formano una bellissima coppia. Anderson evidentemente conosce il valore dell’autore il cui lavoro ha tra le mani e decide di utilizzare il materiale in modo coerente e rispettoso: i dialoghi sono rispettati alla lettera e si respira lo stile ironico-malinconico che caratterizza lo stile di Pynchon e che rende i dialoghi del film così familiari alle orecchie dei suoi lettori. È quell’ironia brillante che fa sorridere, ma, talvolta, mentre stai sorridendo, ti soffermi a pensare al significato di quello che hai appena letto/sentito e ti rabbui. Generalmente questa ironia è portatrice di grandi e, allo stesso tempo, dolorose verità. Io la adoro e la odio allo stesso tempo, perché non manca mai di colpire dove deve. Ma Pynchon ha anche un altro lato, che lascia uno spiraglio di speranza, non tanto per la, passatemi l’inglesismo, “bigger picture”, quanto per il singolo e questa è una cosa che me lo rende assolutamente amico e d è per questo che ho affermato di volergli bene anche se lo conosco poco: è impietoso con il mondo, ma non lo tratta come una semplice somma dei suoi singoli.

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Un esempio dell’ironia PTA-Pynchoniana

Paul Thomas Anderson fa esattamente la stessa cosa a livello narrativo e, soprattutto, visivo, costruendo dei grandi quadri e delle sequenze estremamente eleganti: ci mostra una cosa e ce ne dice un’altra. Non si tratta di due concetti in contraddizione, ma, come quelli che considero forse i migliori autori in grado di raccontare una storia articolata e complessa e dirti anche altro, cioè i Cohen (oddio, lo faceva anche Scorsese, ma qui andiamo a gigantilandia e non mi pare il caso sconfinare troppo) con una certa intelligenza sarcastica, PTA segue una sceneggiatura di ferro che funziona alla perfezione e ci fa divertire, emozionare, riflettere, incuriosire, agitare, sperare, deprimere come in una sorta di ottovolante emotivo che tocca picchi estremamente discontinui, molto più di quanto un semplice noir (psichedelico) ben fatto potrebbe fare. Cercherò di spiegarmi con un esempio, perché o a) il livello di emotività che questo film mi ha fatto raggiungere mi ha completamente sconquassata, o b) l’idea non è così complessa ma ho l’impressione di non riuscire a sviscerarla se non proponendo il paragone con la sequenza finale per poi procedere a ritroso.

Se, infatti, la vicenda si conclude positivamente per il personaggio interpretato da Owen Wilson (Roy), con tanto di Doc (Joaqim Phoenix) soddisfatto per avergli ridato la vita (in entrambi i sensi, se vogliamo e, anche qui, PTA ci gioca alla grandissima), allo stesso tempo, proprio questo lieto fine, getta un’ombra sulla solitudine di Doc, quella solitudine bruciante e dolorosa dovuta alla mancanza di quella persona specifica. Ecco, qui sia PTA che Pynchon mettono in scena l’alternarsi emotivo sul continuum dolore-gioia che è proprio un rimbalzare non solo tra gli estremi, ma, talvolta, un fermarsi a metà, come quando Doc e Shasta, la ragazza che palesemente ama, giocano a fare i fidanzati per un momento e poi di dicono, a vicenda, “non significa che torneremo assieme” e l’altro risponde “certo che no”. È tutto un non detto e un lasciato in sospeso, sono tutte speranze lasciate socchiuse come delle porte da cui è ancora possibile passare, ma che i personaggi sembrano non avere la capacità di aprire. E questo impianto funziona alla perfezione in uno scenario di personaggi immaturi e bambini, di cui forse il più bambino di tutti è il detective Bigfoot Bjornsen interpretato da Josh Brolin, che con Doc ha un rapporto un po’ Zenigata-Lupin e, credo concorderete con me, funziona nella finzione (nei cartoni animati), ma non nella vita reale. Il suo personaggio, che è a metà strada tra un bambino gigante e lo stereotipo del papà severo, viene reso in tutta la complessità necessaria per tenere assieme entrambi questi aspetti e ne cogliamo tutta la tenerezza e l’intensità sia grazie alle sequenze che scivolano lontano dalla soglia della realtà e vanno verso l’immaginazione – e questo accade spesso in Pynchon -, ma anche nel sipario domestico in cui ci viene presentato nella bizzarra relazione con una moglie-madre molto impositiva e, a questo proposito, il mio ragazzo mi ha fatto notare (e ve lo riporto testualmente quello che ha detto perché lo trovo significativo) che questa scena ritrae la moglie solo dai piedi alle spalle “come al signorona di Tom e Jerry, che è il classico siparietto tragicomico con riferimento pop da post-moderni”, che non può che essere una genialata partorita da PTA solo, perché è impossibile rendere per iscritto una cosa del genere. Bigfoot dimostra di essere un grosso bambino, con tutta l’autentica stranezza che sono i bambini e le persone molto innocenti conservano, soprattutto, nel suo finale con Doc in cui assume il più infantile dei comportamenti.

Sono uscita dal cinema soddisfatta della visione, perché il film è perfetto, non ha difetti, è ironico, speciale, unico, fedele allo stile di PTA, con tutti quei carrelli e le inquadrature magiche che richiamo molto la pittura e che fanno dei personaggi delle creature altre rispetto agli esseri umani di contorno che occupano gli spazi vuoti della vicenda. Ognuno di questi personaggi è unico e bizzarro e, se analizzato nei dettagli, assomiglia di più a una creatura mitologica o fiabesca che a una persona vera e propria, eppure, proprio per questo motivo, proprio per la vicinanza psicologica con le idiosincrasie atomiche di questi soggetti, ci appaiono più umani di quanto non sia possibile immaginare, ci colpiscono al cuore, ci fanno sperare che Shasta e Doc tornino ad abbracciarsi sotto la pioggia e, allo, stesso tempo, ci lasciano l’amarezza della consapevolezza che un sogno, un grande sogno, è finito. L’epoca in cui l’amore, la pace, gli ideali più puri dovevano essere dominanti, l’epoca che viene rimpianta tutt’ora, questo Sessantotto il cui sogno è morto troppo presto in realtà, come intuiamo dal film, era intossicato ben prima di essere ancora concluso.e questa amarezza ci segue fuori dalla sala, fino in casa e resta con noi per giorni e, mentre ci pensiamo, mentre i giorni passano, l’amarezza si fa un po’ meno forte e pensiamo che forse una speranza c’è, forse non per il mondo intero, ma per Doc c’è.

final

4 pensieri su “Vizio di forma

  1. Come quasi sempre hai scritto la miglior recensione che ho letto su un dato film.
    L’hai compreso e sviscerato perfettamente.
    Un saluto a Filmorri e alla sua geniale intuizione

    • Caspita grazie 🙂 anche perché questo film mi ha colpita molto ed è capace di raccontare la vitalità dei sogni e il loro lato effimero senza indebolire né l’uno né l’altro aspetto.
      Sarà fatto!

  2. mi hanno colpito la prima e l’ultima immagina, uguali, il mare fra le case.

    per il resto è impossibile essere più contenti di te, io ho guardato, senza farmi troppe domande, e mi è piaciuto.

    c’è molta follia e paranoia, ma così va il mondo.

    • Ciao! Questo film mi ha colpita al cuore, non posso nasconderlo. PTA è uno che sa vedere e far vedere oltre!
      Grazie per essere passato di qua!
      Comunque l’ho trovato una metafora forte e ben riuscita dello smarrimento contemporaneo, anche oggi come allora ci troviamo in un periodo di sogni infranti.

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