Under the Skin

Ho aspettato a vedere Under the Skin perché ne avevo sentito parlare male un po’ ovunque. Per quel deprimente 6.3 su imdb, che non sarà affidabile ma comunque scoraggia. Non avevo fatto caso al metascore di 79. Sì, lo ammetto, dopo aver scoperto che la maggior parte dei film che adoro hanno un punteggio generale scarsino e un metascore altissimo tendo ad affidarmi un po’ troppo irrealisticamente a tali punteggi, facendomi guidare anche da quello. Ma non solo. Ho visto Birth qualcosa come dieci anni fa, poco dopo che era uscito. L’ho noleggiato in videocassetta nel periodo in cui mia mamma endorsava tantissimo la mia passione per l’horror e il mistero e, quando ero malata, tipo costretta a letto (=divano), correva al videonoleggio e lasciava che mi imbottissi occhi, mente e, in casi fortunati (vedi The Elephant Man) cuore di film. Il film mi era piaciucchiato, mi ero sentita molto dentro alla vicenda anche se la storia è assolutamente surreale ed ero stata spiazzata da un finale così fastidioso che definirei scartavetrante. Non so, rovinava un po’ tutta la poesia. E poi sono mesi che vorrei vedere Sexy Beast e per qualche ragione me ne dimentico. Insomma, la pigrizia e il pregiudizio, ammetto che avevo paura che il film fosse un po’ una cretinata.
Comunque mi sbagliavo. Under the Skin è straniante e, allo stesso tempo, parla apertamente di sé. Apre con una sequenza che richiama fortissimo Blade Runner, in cui non vediamo altro che un occhio e sentiamo una voce pronunciare parole.

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Parole a caso, che non centrano l’una con l’altra, la cascata alfabetica nonsense di qualcuno che sta imparando un linguaggio nuovo. Da qui in poi, saranno poche le parole che sentiremo pronunciare da Laura e non saranno altro che pezzi di conversazioni di circostanza, richieste di indicazioni stradali, banalità e frasi vuote come la sua espressione, che mantiene una vacuità rigida e allo stesso tempo fragilissima – una fragilità che emerge quando Laura si spaventa, come nella sequenza in discoteca, dove, frastornata dalle luci stroboscopiche e dalla musica imrpobabilmente brutta, tenta di fuggire, prima di rendersi conto che la discoteca è un eccellente terreno di caccia. Perché quello che sappiamo di Laura è che il suo compito è quello di cacciare uomini, che attira in casa sua – un edificio fatiscente, che cade a pezzi – e trasforma in carne da macello. Letteralmente.

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Cosa ci faccia, cosa ci facciano lei e gli uomini con la tuta da motociclisti con cui si relaziona silenziosamente e che la aiutano nella sua missione non ci viene spiegato. Capiamo solo che gli umani sono, per lei, materia prima, nient’altro. E questo ci basta. Andando poi a fare riferimento al romanzo da cui il film è tratto, i maschi intrappolati da Laura diventeranno cibo per gli alieni del suo pianeta. Ma che lei non è di questo mondo e che gli uomini non sono altro che materia, lo capiamo anche senza sapere nulla della storia. Sotto questo punto di vista ho trovato Under the Skin molto intelligente, un po’ perché lavora per sottrazione, togliendo tutti gli elementi di cui il libro è ricco, per farci arrivare a quello che pare essere il fulcro della storia in entrambi i casi, letterario e cinematografico, ovvero l’umanità di Laura che emerge a poco a poco. Solitamente non apprezzo i film in cui il robot o l’alieno o il mostro scoprono miracolosamente di avere un’anima e compiono qualche gesto altruistico per cui ti ritrovi a piangere abbracciata al rotolo di Scottex ma hai l’impressione che sia stato fatto apposta (eccetto Corto Circuito e quell’altro film di vecchi con la tavola calda e i mini dischi volanti che proprio non ricordo, o era sempre lo stesso?). Under the Skin è un po’ il lato oscuro e, per me, più profondo di questi film e proprio nella misura in cui la pelle e la carne sono il mezzo attraverso cui conosce l’umanità: tagliarsi, sanguinare, guardarsi allo specchio e riconoscere l’alterità, non poter mangiare, non poter consumare un rapporto sessuale, sono tutte barriere contro cui il corpo di Laura va a sbattere, perché sotto quel corpo resta sempre un’aliena. E questo lo sappiamo già dall’inizio, quando una ragazza morta a bordo strada, accanto a un furgone bianco – lo stesso con cui girerà poi Laura – viene trascinata in una stanza bianca da un motociclista, spogliata da Laura come un manichino il cui unico ruolo è quello di passare il testimone, rappresentato dai vestiti cheap e volgari che rappresentato una sorta di uniforme distintiva. La lentezza con cui tutto viene costruito, la scarsità con cui viene stimolata l’empatia per tutta la prima ora di film, è funzionale a lasciarci stupiti per il primo gesto di pietà di Laura, che la costringe a una fuga sconclusionata e disorganizzata, senza giacca, senza meta e quando viene raccolta e aiutata da un uomo che accetta il suo non parlare e la porta con sé, con lei che tace a un metro di distanza e lui che riempe il cestino della spesa con l’attenzione impacciata di chi solitamente fa la spesa da solo, di chi, a sua volta, non è abituato alle persone. A me queste due solitudini, così diverse ma anche verissime, hanno commosso. Non sapere cosa dire, cosa fare, conoscere noi stessi e gli altri attraverso il nostro corpo, lo spazio che occupiamo o non occupiamo nel mondo, è quanto di più umano si possa immaginare. Esserci. La scelta di far smettere di parlare Laura in questa seconda parte del film mi è piaciuta nella misura in cui il suo personaggio, inizialmente, non diceva nulla che non fosse una banalità. Come se non potendo arrivare a parlare ciò di cui parlano realmente gli esseri umani preferisse tacere – non voglio andare a recuperare il buon Wittgenstein, per carità, ma tutto quel silenzio, che coincide perfettamente con la mutazione della protagonista, mi ha fatto pensare all’impossibilità di esprimere sensazioni, percetti, impressioni che non si conosce e non si sa dire. Ed è proprio la parte conclusiva del film che mi ha più colpita, la passeggiata nei boschi di Laura che finisce per addormentarsi in un capanno: qui Glazer superimpone l’immagine di lei che dorme con quella della foresta, un po’ a ricordarci che Laura è comunque Altro, ma, allo stesso tempo, comunicandoci una sorta di pace che non ci aspettavamo di poterle attribuire. Il finale è veloce, angosciante, fortissimo: la separazione di Laura dalla sua pelle è brutale, violenta, con il corpo nero e alieno che tiene il suo volto umano tra le mani: il gioco di sguardi mi ha fatto pensare che la pelle con cui Laura si è relazionata con il mondo è viva, si è conquistata una parte di umanità che vive a prescindere da ciò che era prima e che ha contagiato ciò che era prima, con tutte le piccole cose umane che sono passate dalla sua pelle e, lentamente, sono diventate parte del suo essere.

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Ora, una serie di cose che ho apprezzato ma che non so dove accidenti piazzare e quindi attacco qui in fondo:
• La scelta di Scarlett Johansson (o come si scrive), all’inizio mi lasciava un po’ perplessa, perché Match Point a parte, non mi pare abbia rivestito ruoli eccezzionali all’infuori di Her di Spike Jonze. Dove non appare mai e non è altro che una voce che inizia a provare sensazioni fisiche anche in assenza di un corpo, mentre qui è un alieno che inizia a provare emozioni attraverso il modo in cui il suo corpo interagisce con ciò che ha attorno.
• La colonna sonora è una bomba assoluta (http://sentireascoltare.com/recensioni/mica-levi-under-the-skin-ost/), ho adorato il sottofondo sensuale-inquietante delle sequenze in cui Laura porta gli uomini nel suo covo e li sacrifica, trasformandoli in carne e lasciando solo la loro pelle fluttuare in un misterioso liquido: qui colonna sonora e immagini procedono con una sincronia perfetta.

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Under the Skin è un film imperfetto, con qualche sbavatura, con il difetto di essere molto criptico, ermetico, un po’ autoreferenziale, probabilmente, ma sono tutte queste caratteristiche, queste criticità che mi hanno spinta ad apprezzarlo così a fondo, a pormi delle domande, a farmi coinvolgere dalla decisione di Glazer di restringere la storia a quella della umanizzazione di Laura, di renderla così poco eroica e poco rumorosa da far sembrare che attraverso la sua pelle le emozioni passassero all’essere sottostante con un contagocce, perché era l’unico modo per raccontare quel tipo di processo lasciandoci comunque straniati, impressionati dalla sua morte, non disperati e lacrimevoli, ma (un casino) pensierosi.