Una nuova amica

Ho bisogno di favole. In questo periodo ho bisogno di favole. E François Ozon me ne ha regalata una, tutta nel suo stile. Una nuova amica, tratto da un racconto che ha ispirato anche Il buio nella mente, di Chabrol, si impone con forza come un film di Ozon. Ne riconosco immediatamente lo stile, la francesità, l’abilità per il mischiare i generi – Ozon stesso definisce questo come un film transgender e, alla fine, è quello che fa sempre, restando, ancora una volta, fedele al suo stile. Ho iniziato a pensare a Ozon come a un autore con un’anima solo da poco tempo, specificamente dopo aver visto Nella casa, un film di una bellezza, un’intelligenza e una profondità che non ci potevo credere. Un film che parte come un bildungsroman a tinte sociali, si sviluppa come un thriller, si conclude come una fiaba al contrario, facendo scivolare lo spettatore tra realtà e finzione senza soluzione di continuità (un film, in sostanza, che ti inganna, come Swimming Pool, ma che, rispetto a questo, ha qualcosa che si arrampica fino all’anima dello spettatore e colpisce a fondo). Ozon è bravo. Calcola, mette tutto in scena con precisione chirurgica. Non ci sono buchi di sceneggiatura, errori, non c’è un movimento di macchina fuori posto. Dove dev’essere minimale è minimale, dove c’è da osare osa – ci sono montaggi thrillerosi in momenti narrativi che non sarebbero thriller se non fosse che invece sì: in sostanza, Ozon risveglia il thriller anche nell’aprire una porta di una casa in cui sappiamo che, l’unica cosa nascosta, è un innocuo segreto. Un segreto delicato, leggero. Come un vestito da donna.

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I primi venti minuti di Una nuova amica sono poesia pura e riassumono la crescita di Laura e Claire, amiche per la pelle – bellissima la scena del patto di sangue – che vivono un’amicizia fortissima, una sorellanza che rivela da subito una sorta di blanda e delicata subordinazione da parte di Claire nei confronti di Laura. Entrambe compiono, a breve distanza l’una dall’altra, le tappe fondamentali della vita. Diploma, laurea, matrimonio. Con una regolarità abbacinante fanno tutto quello che la società si aspetta da loro, tutto quello che è canonicamente accettato e auspicato. Poi Laura muore. Un’altra tappa, raggiunta molto prima di quanto non dovrebbe accadere. Nel mostrarci tutto questo Ozon è brillante, perché l’incontro di Laura con David, futuro marito (e di Claire con il futuro marito) in discoteca ricalca l’estetica tempodellemelesca (vedi immagine sopra) che tutti riconosciamo, ripassando tutti i dettami della romcom nel giro di due minuti. E poi ci spiazza, non solo introducendo a forza la morte nel discorso, ma sottraendola con altrettanta forza per fare spazio al tema dell’identità sessuale. Per quanto il dolore di David sia forte, Ozon non affronta, infatti, il lutto in sé, ma la rinascita a esso conseguente, senza togliere dignità al dolore per la perdita della persona amata. Meravigliosa la sequenza dell’obitorio, in cui David racconta di aver vestito lui stesso Laura per metterla nella bara e di averle messo indosso l’abito da sposta. Le luci sono fredde, respiriamo dolore anche se Ozon non fa nulla per pestare sul pedale del pianto, ma la sequenza risulta, in tutta la sua semplicità, estremamente poetica e significativa, riassuntiva della dolcezza del personaggio di David, perché, in tutta la sua confusione, spicca la certezza dell’amore per Laura.

Quando Claire va a trovare David, vincendo la paura di vedere la bambina di Laura e di essere sopraffatta dai ricordi, inizia il thriller. O meglio, c’è una delle sequenze thriller alla Ozon. Vediamo, seduta sul divano, una donna che dà il biberon a Lucie, la bambina. La macchina da presa si avvicina alle sue spalle, la tensione si fa più forte, ma perché? Quando la donna avverte la presenza di Claire e si gira, la tensione crolla e si spezza con un clangore. Perché quella che stiamo vivendo è la tensione di Claire, che, vedendo David travestito da donna, è sconvolta, disgustata, sente che la memoria della sua migliore amica è sporcata. Ma non ci vorrà molto perché Claire si renda conto che quello in cui vive David e in cui vive anche lei non è fatto di linee definite e compartimenti stagni, ma è pieno di imprevisti e sbavature – come tutte le sbavature di rossetto e trucco che ci vengono proposte in più momenti del film, proprio quando c’è una forte confusione di ruoli. E imparerà ad accettarle, chiamando David Virginia e ad amarle.

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Hitchcock?

Il film ci porta in modo anche ironico e leggero nel travestitismo e penso che buona parte del merito vada alla splendida interpretazione di Romain Duris (già supersfaccettato in Mood Indigo) e ci sono svariati momenti divertenti: ho apprezzato moltissimo il momento in cui David si toglie gli abiti femminili e rimette quelli maschili per spiegare a Claire la situazione e, mentre regge un bicchiere nella mano tremante, vediamo lo smalto rosso sulle sue unghie. Che è un modo divertente e acuto per dirci che David può anche togliersi l’abito, ma che quello che lo spinge a metterlo resta lì. Non è così semplice. Divertentissima poi la sequenza del cinema, durante la prima uscita di Claire e Virginia, quando questa viene palpeggiata da un maniaco da cinema che è proprio Ozon (sono quasi caduta dalla poltrona del cinema, lo ammetto).

Ozon ci racconta l’identità sessuale di David, sia come reazione al lutto, sia come inclinazione già presente ma mai esplorata, sia come ridefinizione di sé e della propria identità e lo fa con forza, perché David, pur rendendosi conto di tutti i problemi che questa riscoperta di sé comporta per la situazione che sta vivendo, l’afferma con sicurezza, perché non è un desiderio, ma una necessità. Ozon ci mostra la necessità con un gioco di specchi e di rimandi di immagini riflesse e frammentate che ci vengono proposte su varie superfici riflettenti in diversi momenti del film ed emblematica è quella proprio dopo il primo pomeriggio all’aperto come Virginia, quando David si toglie il trucco e vede sdoppiata la sua immagine negli specchi della toilette e, anche lui, si sente diviso, spezzato. Ad aumentare il grado di confusione (ma scommetto che Ozon è proprio lì che voleva arrivare), pone anche l’imprevisto dell’innamoramento: Claire e David si innamorano, ma Claire si innamora di Virginia, in realtà. Anche qui, ulteriore livello di confusione, non tanto sull’identità sessuale (David è un uomo che si veste da donna a cui piacciono le donne e che si innamora della migliore amica della defunta moglie), quanto sull’identità della persona amata (Claire si innamora di Virginia, non di David e quanto di Laura c’è in Virginia?). Se la sequenza del tennis in cui il marito di Claire gioca contro lei e David in un perfetto triangolo è estremamente ironica, molto più intensa e memorabile è quella nell’hotel Virginia, in cui i due decidono di consumare il loro amore inespresso, con quell’intreccio di gambe che paiono tutte femminili e il traumatico irrompere delle dimensione maschile.

(Spoiler)

Il finale è la favola di cui parlavo all’inizio. Dopo l’incontro in hotel, Claire scappa perché non riesce a fare i conti con la parte maschile di Virginia e una Virginia-David con il trucco così sfatto da rivelare l’ombra della barba, viene investita. Ora il mondo sa. Ed è solo quando Claire accetta David in tutta la sua interezza, quando lo riveste proprio come lui aveva fatto con Laura all’obitorio, che David può essere Virginia e tornare alla vita, in senso fisico e metaforico. Qui ci troviamo di fronte alla sospensione del realismo con cui dobbiamo spesso fare i conti nei finali ozoniani, quando vediamo, sette anni più in là, condensato in un minuto cinematografico ricco di luce e di colore, il loro vissero felici e contenti: una nuova famiglia, travestito, donna e bambina, che si prendono per mano e si allontanano in un parco così bello da non sembrare nemmeno vero.

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