The Revenant (una parola o due)

Allora. Sono passati quasi dieci giorni da quando ho visto The Revenant e non ne ho ancora scritto per due motivi: un po’, perché non ne sentivo eccessivamente bisogno, un po’ perché Iñarritu mi irrita e mi ha sempre irritato (come suggerisce il nome, peraltro). Ammetto da subito che sono entrata al cinema piena di pregiudizi. Volevo non farlo, eppure loro erano attaccati alla mia testa come i Gremlins la notte di Natale e quando mi sono fatta strada tra le tende di velluto mentre scorrevano i titoli di coda dello spettacolo precedente ho alzato gli occhi sullo schermo ed è apparsa una scritta che recitava più o meno così “questo film ha dato lavoro a 15000 persone”. Ma gli altri film no? Gli altri film a 14988? E quindi non piaceva? Lo fanno alla fine di tutti i film? Io di recente ho visto La Isla Minima (filmone!) e non c’era nulla del genere. Nemmeno quando ho visto Eden (filmone!). Adesso resterò fino all’ultimo secondo di ogni titolo di coda per appurare che nessun altro lo faccia e tornerò qui e scriveròdi quanto sono ancora più certa della tronfiaggine di Iñarritu.

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Bene, detto questo, possiamo iniziare. Di Iñarritu ho visto tutto, perché un po’ ci ho provato a capirlo, ad accettarlo e, quando l’ho capito, ho deciso che non faceva per me. 21 grammi era troppo. Il malessere così inseguito e cercato e l’amore dipinto così male e ficcato in recenti in cui non sta mi ha dato estremamente fastidio. Il problema di Iñarritu è che è bravo, sa come si fanno le cose e le sa fare anche bene, ma gli manca la poesia. Tutta quella poesia che lui cerca, insegue, agguanta trascinandola per i piedi e distorce nel modo che più gli piace è fastidiosa, non è bella. Non è profonda. È un falso, un’imitazione della poesia. Ed èpure un falso fatto male e a tinte forti. Come un quadro di Sir John Everett Millais dipinto con gli evidenziatori. Perché noi spettatori, poverini, siamo stupidi e lui deve per forza sottolineare la poesia, altrimenti da soli non ci arriviamo. Falso.
Tutta la sequenza di apertura mi ha fatto sperare, devo ammetterlo, perché la macchina da presa che si getta a terra e segue il conflitto con la fluidità e l’immersività nell’azione è meravigliosa. Guardi il film e sei nel mezzo dell’azione, le frecce che colpiscono gli inglesi stanno colpendo anche te e la carneficina che Iñarritu ci propone è angosciante nella misura in cui, non capendo da dove arrivano le frecce, che piombano addosso alle loro vittime come una pioggia violentissima, non sappiamo identificare la fonte della paura e della morte. In modo meno sofisticato riprende il meccanismo per cui in Full Metal Jacket la scena del cecchino fa qualcosa al nostro corpo per cui diventiamo immobili e irreattivi, non possiamo che fissare lo schermo e avere paura. La morte è ovunque proprio perché non le possiamo attribuire un corpo e un luogo.

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Non mi metterò a parlare di quanto è bella la luce naturale (Lubezki) e la location e la colonna sonora (Sakamoto) e la natura e le inquadrature dal basso verso l’alto dei tronchi degli alberi e l’acqua che scorre nel ruscello sospesa tra la vita, lo scorrere e la morte, il ghiacciarsi. Si potrebbero fare millemila speculazioni poetiche e simboliche su tutte queste immagini meravigliose, ma, la verità è che, invece, non possiamo. Perché Iñarritu ha deciso di farle al posto nostro, perché lui sa cosa vuole dire e vuole che non capiamo esattamente quello che intende, quindi ce lo spiega (come fa Nolan, che ti fa lo spiegone di ogni passo del film altrimenti ti perdi, anche se io ho il vago sospetto che il ricapitolamento in aeroporto alla fine di Inception sia un bignamino del tipo: ti sei perso (mi sono)? Ecco cos’é successo!, ma questo non è il luogo – al prossimo film di Nolan anche lui avrà la sua dose, se farà un’altra Interstellarata). E ce lo spiega in una serie di modi che ho trovato fastidiosissimi (in ordine sparso perché mi sto innervosendo e arrivano a pioggia) (evito di mettere il fatto che Domhall Gleeson fa sempre la stessa parte, ma lo penso):
• Il personaggio di Tom Hardy: lui è bravissimo a fare il duro che è diventato tale perché storia di vita l’ha portato fin lì, ma, detto questo, non gli viene permesso di fare nulla di quello di cui è capace. Uno che ha reso interessante e al cardiopalma un film in cui sta immobile e non fa altro che guidare (entro i limiti di velocità) e stare al telefono (non con un serial killer) deve comportarsi come un cavernicolo. Credo che la scena peggiore sia quella in cui trasportano Hugh Glass/Di Caprio ferito su una barella che puntualmente cade e TH e altri troglos quasi quasi bestemmiano – umanità zero meno meno. Io capisco il male, la gente brutta, la vita amara, ma mai si è visto un cattivo cosi rozzamente descritto, con così poco da dire (non verbalmente, va beh, avete capito, non voglio fare la Iñarrita che spiega tutto) e questo mi è dispiaciuto.
• Il personaggio di Di Caprio: Hugh Glass è un uomo buono e retto che viene portato sull’orlo della follia da uno che lo abbandona morente nel bosco e che gli ammazza brutalmente il figlio per i suoi biechi interessi. HG non parla quasi mai, per tutta la durata del film ansima e si trascina e lo fa benissimo, santo cielo, al punto che siamo lì con lui e capiamo quando la tristezza e la rabbia si mischiano in quella forza sovrumana meravigliosa e orribile allo stesso tempo che lo tiene in vita. La vendetta è quello che lo tiene in vita, la sete di sangue, detto brutalmente e, ciononostante, noi sappiamo e capiamo che non è un uomo crudele e Di Caprio è bravissimo in questo. Non c’è bisogno di fargli vedere la moglie fluttuante Gesù e di far FONDERE IL SUO RESPIRO AFFANNOSO CON LE NUVOLE CHE POI CONTINUANO A MUOVERSI CON IL RESPIRO IN SOTTOFONDO (ho odiato questa scena con tutta me stessa) perché tutto il substrato spirituale lo avevamo già capito da soli, grazie. Ora che me lo spieghi lo odio. Tutti questi tocchi da maestrino zen rovinano delle sequenze geniali come quella dell’indiano (pardon, nativo americano, come insegna South Park) che gli salva la vita costruendo un riparo con i tronchi, che è quanto di più western si possa immaginare, con il silenzio che riempe ogni angolo di schermo di una forza e una solidità struggenti, con questo personaggio potentissimo nella sua ieratica semplicità (un esempio di massimo tributo al silenzio che dice tutto è il bellissimo All is Lost, già che ci siamo, di un regista con meno fama e con meno ego, tempo).

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• Il cavallo di Troia: HG che si nasconde sul cavallo facendo il morto per sparare a Tom Hardy è una furbata alla Indiana Jones che ho trovato ridicola da qualunque angolazione la si guardi. Santa pazienza.
• Il Perdono. Noi non sappiamo cosa sia il perdono – Iñarritu invece, dato che conosce ogni forma suprema di Amore e Virtù sì e ce lo spiega con la sequenza in cui Glass, dopo aver maciullato ogni parte semoventesi di Tom Hardy vede i nativi americani e decide di lasciare il corpo del suo nemico nelle mani della Natura, anziché ucciderlo (a me dava comunque l’idea che mettere un moribondo in un fiume ghiacciato e lasciarlo uccidere da altri non sia proprio un esempio di pietas da manuale, ma forse io non ho capito).
D’altra parte ci sono anche delle scene e delle sequenze meravigliose e non si può non riconoscergliene il merito: oltre a quella di cui parlavo al punto 2 e l’incipit, anche l’inseguimento finale è perfetto, incalzante, non so come ma quelli corrono allo stesso ritmo a cui batte il tuo cuore, sei presissimo, sei nella neve, sei dalla parte di Glass anche se qualcosa di fa dispiacere per Tom Hardy (forse sapere che ha quasi picchiato Iñarritu – un film che avrei visto volentieri), il cui personaggio evidentemente non inizia e non finisce nei confini che Iñarritu gli disegna e la bravura di TH, infatti, fuoriesce e la prova è il fatto che nonostante tutto quello che ha fatto, abbiamo la sensazione che ci sia un uomo dietro al villian tagliato con l’accetta da Iñarritu, uno che se è arrivato a quel punto da qualche parte è partito (guardate Peppermint Candy, per favore!), un personaggio stratificato e vivo, pieno di umanità, per quanto si tratti di un’umanità atroce e divorata dall’egoismo, ma, in quanto tale, verissima. Ho apprezzato lo sguardo in camera di Glass che, finalmente, può morire, ma ho avuto la costante sensazione che quella scena fosse durata un paio di secondi di troppo, quando un taglio netto sul primo piano sarebbe stato molto meno retorico. Ma parere mio.
Il problema principale di The Revenant (che è comunque meglio di Birdman, dove all’abilità tecnica e alla bravura degli attori non si affiancava nulla se non la boria di uno che permette di essere dei bravi attori anche ai Batman di turno – che poi QUEL Batman è meraviglioso – se non i siparietti Edward Norton – Emma Stone che parevano la peggiore dell romcom indie (ma neanche troppo indie)) non è solo che è come il quadro di cui vi parlavo all’inizio dipinto con l’evidenziatore, né che purtroppo lnarritu non è Terrence Malick ma ci prova (ah, Badlands!) ma è anche il fatto che pretendendo di non essere un film di genere sfigura in quanto a poesia accanto a capolavori western e umani come Il grinta (sì, entrambi, smettetela di dire che è noioso) o Il grande Silenzio e pare un bellissimo film rovinato dal commento in sovrimpressione del regista, che non sta zitto un secondo.