Starry Eyes

Quindi Hollywood è effettivamente un luogo oscuro e malvagio.

No, il film non è così riduttivo, anche se lascia un po’ di amarezza proprio a causa di un inizio molto credibile e forte e coinvolgente e, quando tutto l’aspetto misterioso della vicenda finisce nelle braccia di un epilogo un po’ buttato come capita con un’estetica del crimine à là Charles Manson (ah, a proposito, aneddoto: gente amica di gente a cui avevo prestato Take Shelter una volta l’ha chiamato Helter Skelter, ma si può? È più di un anno e mezzo che convivo con questo tormento e adesso basta) per poi tornare al misticismo marcio molto intrigante che mi aveva conquistata per poi buttare tutto lì di nuovo. Allora, non tutti possono prendersi solo 5 minuti per dirti “c’è Satana di mezzo” e fare un capolavoro (SPOILER: Kill List, tipo?). A volte dire che c’è Satana, metterlo bene in chiaro, non è sufficiente per far reggere un film. Ma andiamo con ordine.

Alexandra Essoe, una donna ignota ma bravissima in questa parte, è Sarah, aspirante attrice che paga le bollette con un lavoro come cameriera in uno di quei ristorantacci americani (Big Taters, tanto per dire) dove chi serve ai tavoli deve, contemporaneamente, servire – visivamente, eh – anche tette e culo. Tipo così.

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Poteva benissimo essere un drammone sulla gente che si veste male

In realtà da qui potrebbe partire un film parallelo, una storia di gente povera che viene sottomessa dal padrone e da chi ha il potere, ma che indossa con dignità i suoi birra-leggins e conquista, non senza una fatica abominevole, chiaro, il suo posto nel mondo. Che, in realtà, è più o meno quello che passa nella testa della nostra Sarah quando la vediamo provare con entusiasmo e ansia le parti per i provini, lavorare volenterosa ma depressa, raccontare i suoi sogni con affetto alla sua amica e coinquilina (la tizia di Red, White & Blue, tra l’altro). Solo che la svolta dignitosa che avrebbe preso un film dei fratelli Dardenne Sarah la lascia a qualcun altro. Frustrata dai provini a vuoto, dal lavoro e da amici fancazzisti che sognano di lavorare nel cinema ma sembrano non far nulla perché questo accada davvero (quante volte avete detto: dobbiamo fare un film e non l’avete mai fatto?), quando a Sarah si presenta l’oppurtunità della vita per un grosso film horror, decide di dare tutta sè stessa, dapprima in un provino in cui le viene chiesto di mostrare la sua vera natura, quella autolesionista e autopunitiva, poi il suo corpo e poi di darla a Satana. Per essere schietti. In realtà i 3-4 provini sono una delle parti più belle: se nella primissima esibizione di Sarah vediamo la sua sincera passione per il cinema e la recitazione, con quelle note naif e gioiosamente isteriche nella voce mentre dice “sono perfetta per la parte”, dopo pochi minuti ci rendiamo conto che la candida isteria non è che una piccola parte di Sarah, che non solo di strappa i capelli ogni volta che fallisce, ma che è capace di vendere questa sua fragilità per ottenere attenzione dai produttori quando le viene chiesto di farlo.

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Quando viene richiamata e le viene chiesto di spogliarsi, mentre flash abbaglianti ci permettono di vedere solo il mutare delle sue espressioni, il film ci sta già raccontando che Sarah non sarà mai più quella incontrata all’inizio del film; il flash si interrompe e la luce si spegne gradualmente, assomigliando a una cellula in mitosi. Sarah che si scinde in due cose distinte, una sorta di schizofrenia della morale che la porterà a scegliere quale sé stessa portare avanti. E, dato che il successo e i sogni richiedono sacrifici, esiste forse qualcosa di più rapido di un sacrificio dell’anima suggellato con una fellatio a un emissario di Satana?

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Certo che no!

Tutta questa prima parte del film è molto scorrevole, ben fatta, coinvolgente: da un lato Alexandra Essoe è bravissima a fare la giovane attrice speranzosa che abbandona progressivamente il candore dell’amore per l’arte per abbracciare la spietatezza non appena riceve delle attenzioni – secondo me è geniale il risolino compiaciuto che le sfugge quando una delle sue non-amiche cade spaccandosi il naso – e dall’altro ci sono una serie di comprimari che reggono contesto, alcuni benissimo (il personaggio di Pat Healy, il datore di lavoro di Sarah, teoricamente viscido ma nella pratica dei fatti un essere umano onesto e integro come pochi nel film, il che rende la visione del mondo che ci passa estremamente pessimista, se lui è uno dei baluardi dell’onestà che ci vengono proposti), altri un po’ meno, soprattutto gli amici perdigiorno di Sarah, che paiono degli eterni teenager con velleità ma senza una vera voglia di tentare, che mi sono sembrati un po’ troppo monodimensionali nel loro essere persone “non-orribili-ma-perdenti”.
Dal cambiamento di Sarah in poi il film perde colpi e si smarrisce: mi è piaciuta molto la metamorfosi fisica della protagonista, che perde i capelli, continua a dimagrire, a vomitare, a sembrare una malata di qualche morbo zombificante e che, disperata, torna dal produttore e incontra un ragazzo, anche lui in pessime condizioni – è solo un istante, ma c’è questo scambio di sguardi orribilmente consapevole. Ma la consapevolezza viene spazzata via dal delirio e Sarah continua a dire a tutti quanto sia migliore di loro, mentre i produttori non si fanno più sentire, lei continua a decomporsi e nessuno dei suoi pseudoamici se ne rende conto.

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A questo punto del film nessuno si e` ancora accorto di niente

Oltre all’omertà visiva degli amici anche il delirio di grandezza di Sarah inizia a diventare troppo marcato; capisco l’idea di mostrare che l’ambizione è più potente dell’istinto di sopravvivenza, ma questo sacrificio fisico, in cui il corpo di Sarah si decompone lentamente per lasciare spazio al successo, sarebbe stato forte abbastanza, senza che aggiungessero il sacrificio degli amici. Questa sequenza, che di per sé funzionerebbe benissimo in uno slasher, non ha senso. Non ha senso la rapidità e l’efficace mancanza di esitazione con cui Sarah uccide, uno per volta, gli amici. L’estetica cambia: se la fotografia tetra che ci ha accompagnati per buona parte del film ben rendeva il male di vivere (siamo a Los Angeles e il sole non si può che intuire), ora i colori slavati e lo stile da slasher mi paiono abbastanza privi di senso. Dopo questo momento di mattanza (che, ripeto, secondo me è veramente piazzato lì a caso e significa pochissimo, dato che i ragazzi che Sarah uccide non le erano davvero cari), il film si riprende solo nella scena della rinascita della protagonista, che non sarà perfetta, ma ha di nuovo quel carattere misterioso e potente della parte iniziale che, però, funziona soprattutto sotto il punto di vista estetico e suggestivo, ma non riesce a salvare quello che è un debolissimo epilogo (proprio buttato lì).

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Se il film voleva raccontare il Male che si può trovare nel mondo del cinema in generale ha fallito nella misura in cui registriamo immediatamente questo significato non molto nascosto e, se così fosse, mi risulterebbe di una banalità difficile da sopportare (soprattutto quando film definitivi sull’argomento sono già stati girati e sono, appunto, definitivi). Se il film vuole raccontare una storia di ambizione, di compromesso, di sacrificio di quanto di più autentico un essero umano abbia (le proprie manie, ad esempio) in nome del successo, allora apprezzo moltissimo il tentativo e spero che Kolsh e Widmyer ci riprovino. Il vero peccato è che tutta la prima parte, fino all’inizio della metamorfosi, è davvero promettente e trasmette con forza l’amore per il cinema, per il cinema horror e l’entusiasmo di chi ha quel sogno, per poi perdersi in troppi percorsi narrativi che sottraggono efficacia a tutto l’impianto narrativo. Take-home message: non vendere l’anima al diavolo o suoi emissari.