Lo Strangolatore di Boston (R. Fleischer, 1968)

Restaurato, sottotitolato, pieno del fascino che solo una vecchia pellicola possiede, con quei colori così pittorici e la sagacia dei dialoghi cui sottende una morale di fondo molto forte e, comparata alla stagnante situazione attuale dal punto di vista di un certo tipo di giustizia, moderna.

1962 , dei terribili delitti iniziano a sconvolgere la città di Boston, che viene insidiata dal terrore in molti dei suoi distretti. Omicidi raccapriccianti le cui prime vittime sono donne anziane, la cui morte viene sottintesa e lasciata fuori scena dal regista, nel pieno rispetto di ciò che Popper intendeva con «la morte è oscena». Quello che è necessario premettere, è quanto il film si discosti dalla realtà nel giudicare deSalvo come il sicuro autore della serie di omicidi, quando la storia, invece, ci insegna che la sua colpevolezza per questi crimini non è mai stata dimostrata: il vero deSalvo fu, infatti, rinchiuso in un manicomio criminale a seguito di una lunga serie di violenze carnali (dalle 200 alle 3000, numero falsato dalle segnalazioni telefoniche ricevute in seguito alla pubblicazione della foto di deSalvo sui giornali) commesse nel corso degli anni. nella trasposizione cinematografica, invece, vediamo un uomo diviso tra due identità distinte e separate ed è questo il criminale del quale voglio parlare.

Fleischmann racconta, a sei anni di distanza (periodo in cui deSalvo tentò di evadere dal manicomio in cui era rinchiuso), la storia di una città spaventata, la cui fiducia viene messa alla dura prova da un serial killer in grado di compiere atti mostruosi. Una città che, però, pecca di prudenza, dato che il numero delle vittime continua a crescere. E così si dà il via a una caccia all’uomo tutta poliziesca, dove non mancano battute taglienti e scorci di una società trattata con sarcasmo. Emblematica è la sequenza in cui due donne denunciano come possibile colpevole il loro inquilino, rivelatosi poi estraneo ai fatti, mostrano tutta la loro chiusura mentale nei confronti delle differenze altrui. Le donne vengono caratterizzate come due personaggi bisbetici, ansiosi e ansiogeni, irrequiete e petulanti tanto da destare uno sguardo sufficientemente diffidente da parte dell’agente John Bottmly (Henry Fonda) che, a indagini già iniziate, partecipa alla cattura dello strangolatore di Boston, riconosciuto come Albert di Salvo e, anzi, si dimostrerà determinante nel riconoscere in di Salvo il colpevole.

La parte finale è quella che maggiormente mi ha colpita: il riconoscimento da parte dell’agente Bottomly della colpevolezza di  deSalvo, ma, soprattutto, il percorso che quest’ultimo compie nel conoscere sé stesso o, meglio, l’altra metà di sé, la quale era, fino ad allora, rimasta sepolta nella sua mente. Un bravissimo Tony Curtis racconta con il volto e con espressività crescente e disarmante la discesa di una mente nell’abisso. Il montaggio mostra brillantemente i meccanismi di difesa che hanno permesso all’omicida di coprire i suoi delitti con immagini di tutt’altra natura: l’uomo, infatti, aggiustava caldaie e, in corrispondenza di ogni crimine commesso, le strazianti urla delle vittime erano sostituite da fischi causati dal vapore; i vestiti strappati divenivano stracci usati per riparare una perdita; i colpi inferti si trasformavano in manovre con cui aggiustare i macchinari.

Contravvenendo ai consigli dello psichiatra, l’agente John Bottomly cerca di far crollare, con voce pacata e con fare amichevole, quel muro, quella barriera che di Salvo ha eretto nella sua psiche al fine di proteggere sé stesso e la sua famiglia dalla crudeltà di cui è capace. Di cui deve essere capace, perché uccidere diventa, con il passare del tempo e con l’accumularsi delle vittime, un imperativo categorico, una pulsione incontrollabile. Albert di Salvo, padre di famiglia, stereotipo di un’America casalinga, protettore del caldo nido domestico, diventa schiavo della coazione a ripetere, si trasforma in un essere mostruoso che, pur avendo il suo stesso aspetto, non può riconoscere come sé stesso: di Salvo è un uomo, lo strangolatore di Boston è un’entità mostruosa che sembra non avere corpo, non avere nome. Non può essere umano. E proprio questo è ciò che il registra ci mostra nel mettere di Salvo di fronte a sé stesso, al suo riflesso nello specchio davanti al quale l’uomo non può che, finalmente, riconoscere le sue colpe e sé stesso con l’unica, inevitabile conseguenza di non poter sopportare quel terribile confronto da cui emerge una disgustosa verità. Alber di Salvo non si riprenderà mai più e, da quel momento in poi, cesserà di esistere, lasciando di sé solo un corpo posseduto da uno stato catatonico perenne.

Fleischmann, su queste immagini, conclude il film lanciando una richiesta, una sfida, una speranza: quella che il trattamento e il riconoscimento dei violenti possa essere davvero messo in atto, al fine di evitare che crimini tanto terribili si compiano, di evitare che qualcuno sia messo in condizione di commetterli. Fleischmann ci lascia con una morale per nulla scontata, perché ancora oggi il tema della responsabilità, della causazione, della giustificazione e della giustizia punitiva o riparativa o correttiva sono irrisolti e continuamente dibattuti all’interno di una società che nel cercare la certezza dimentica tutto ciò che sta nel mezzo.