La mia droga si chiama Kassò (Ode a Assassin(s))

Chiunque mi conosce un po’ bene sa di cosa si tratta. La mia condizione consta di tutto quel complesso di sintomi che vanno dall’adorazione, allo sgomento, alla dipendenza che la regia (e la recitazione) di Mathieu Kassovitz provocano. Perlomeno, a me.

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Non so se siano stati certi long-take di L’odio, o l’inchino sprezzante e svogliato che, in Amen (Costa-Gavras) fa-solo-perché-deve e con due movimenti ci fa capire tutto, o lo sguardo più espressivo di tutta la sceneggiatura – che, effettivamente, scarseggiava – ne Il cecchino (che non ho molto amato e, devo ammetterlo, ho sopportato bene solo per Kassovitz. Ma perché poi? Il serial killer in parallelo era una buona idea, un’ottima idea: perché svilupparla così? Perché?), o la coscienza morale, storica e politica di L’ordre et la morale, ma, a un certo punto, ho iniziato a pensare al cinema come a prima e dopo Kassovitz.

kassocecchCi sono moltissimi registi che mi hanno stregata e tutt’ora mi agganciano in modo più morboso e contorto e contemplativo (Haneke e Lynch, per nominare quelli che costituiscono due generi di cinema a sé stanti), ma un film di o con Mathieu Kassovitz non c’è un’ora del giorno che non lo guarderei. Ho voglia di qualcosa di serio sì, ma di simpatico e carino e che mi faccia sperare nella gente? Métisse. Ho voglia di infuriarmi per le ingiustizie sociali e, allo stesso tempo, di provare un senso nostalgico per quel genere di amicizia così stretta che vivi quando sei per metà giovane e per metà incosciente? L’Odio. Ho voglia di adorare follemente qualcuno di terribilmente disonesto? Un héros très discret (di Audiard). Mathieu Kassovitz è perfetto, sempre.

Un film che inizia con una voce fuoricampo di un ragazzo che ti dice che sta morendo, mentre in un televisore la neve produce quel non-suono, quel fruscio che, qui, è da brividi.  Alla neve si sovrappongono le immagini in cui lo stesso ragazzo sta per commettere il suo primo omicidio: ci racconta quando tutto ha iniziato a precipitare, quando ha accettato di sparare alla sua prima vittima. quello che si comprende dalle sue parole, però, è che l’incubo ha radici ben più profonde, dovute a speranze disattese, insegnanti inetti, una vita con poche aspettative in cui un corso di formazione ti insegna a “fare dei buchi”.  Ecco, un film che inizia tenendo assieme tre momenti narrativi (la morte del protagonista, la morte della prima vittima, l’incontro con l’Assassino), ciascuno di una forza tremenda e lo fa con una naturalezza tale da farti sentire condotto per mano nella terribile vicenda narrata, io un film così lo definisco un capolavoro. Dopo cinque minuti.

Sto parlando di Assassin(s), terza opera di Kassovitz che, trentenne, realizza qualcosa di unico, brillante e sconvolgente. Lasciamo stare L’odio, che due anni prima ha avuto un impatto devastante ed è un capolavoro assoluto. L’odio è un film potentissimo, meraviglioso, da guardare e riguardare (sì, sono una fissata e allora?) perché non c’è una parola sprecata, un’inquadratura sbagliata, un secondo di troppo. E questo l’hanno riconosciuto tutti.

Assassin(s) ha avuto minore risonanza, ma, anche qui, non c’è una parola fuori posto, un movimento di macchina che non sia espressivo (io salto sulla sedia per certi movimenti di macchina di Kassovitz, che sono così perfetti da non sembrare nemmeno veri). Questo film è, anzi, stato sottovalutato, criticato, considerato una predica sociale e un esercizio cinefilo. No comment. Io non posso condividere nessuno di questi commenti e rimpiango solo di essere stata davvero troppo piccola quando Assassin(s) è uscito, perché altrimenti l’avrei difeso con idealistica ammirazione (sì, di nuovo, sono una fissata).

Il protagonista della vicenda, Max, è, come dice lui stesso, né buono, né cattivo, influenzabile. In attesa che qualcosa accada. E, mentre tenta di compiere un furto in un supermercato, trova due cadaveri: un uomo e una donna, uccisi da un colpo di pistola, stesi l’uno sopra all’altra. Inquadrature che mi fanno pensare al cinema di Haneke descrivono con freddezza l’immagine. Una freddezza che, però, non è tanto dovuta alla crudeltà, quanto al curioso stupore che nasce nel ragazzo che scopre i corpi e che decide di conoscere l’uomo colpevole dell’omicidio. Una freddezza che, a modo suo, è terribilmente candida.

E qui nessuno se non Kassovitz poteva trasmettere l’ambiguità e la complessità del personaggio: innocente, spietato e tenero allo stesso tempo. Quello che abbiamo di fronte è un ragazzo perso, che non ha amici della sua età, che non ha un vero lavoro, la cui famiglia è costituita dalla sola madre, che cuce tende per pagare una casa enorme, comprata dal padre poco prima della sua morte. Una specie di grande labirinto in cui Max e la madre – che lo chiama “Pollicino”- non riescono a trovarsi mai per davvero e la comunicazione tra i due non è che una telegrafica necessità.

Max, dedito ai furtarelli assieme a un ragazzino di almeno dieci anni più giovane, si introduce in casa dell’uomo colpevole del duplice omicidio, il signor Wagner (un Michel Serrault terrificante) che lo sorprende e gli spara, senza ferirlo, non prima che siano passati alcuni interminabili e agghiaccianti secondi in cui il vecchio tiene l’arma in mano e fissa Max con aria impietosa.

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Questo film vive di superfici, di schermi riflettenti soprattutto quello della televisione, perennemente accesa. Emblematico è il momento in cui Max osserva il video di sorveglianza del supermercato e, sorridendo, guarda con l’avanti veloce la coppia che (clandestinamente, possiamo supporre) fa sesso finché il signor Wagner non arriva e fa fuoco. Max non può fare altro che ipnotizzarsi con la televisione, le cui immagini e sonorità riempiono l’horror vacui da cui è perseguitato. E così segue il signor Wagner che, come un mentore, lo inizia alla morte.

La sequenza del primo omicidio è resa ancora più terribile dal fatto che il vecchio convince la vittima di essere stato assoldato dal figlio per porre fine alla sua esistenza. Una crudeltà gratuita a cui non si riesce a restare indifferenti. Max piange, disperato. Non vuole ucciderlo, non può, ma è stato convinto che la sua vita non valeva nulla, che fosse totalmente insignificante e inutile, mentre il signor Wagner ripone in lui la sua fiducia e qualcosa di simile all’affetto e, così, senza alcuna freddezza, ma con rabbia, Max picchia l’uomo. Nel frattempo la televisione blatera, Max cambia canale, devastato da ciò che ha appena fatto, mentre il signor Wagner gli comunica che anche lui ha iniziato la carriera da assassino allo stesso modo e che vuole insegnargli la sua esperienza. L’insegnamento della morte è il lascito che Wagner vuole dare al figlio che non ha mai avuto e che Max accoglie da quello che rappresenta la cosa più vicina a un cambiamento nella sua vita. L’omicidio è un sollievo, alla fine. Il termine di una sequenza mostruosa, terrificante, opprimente, in cui Wagner minaccia Max con una pistola per farlo sparare. Le urla di Wagner, le grida disperate di Max, i lamenti del vecchio, la televisione: tutti i suoni si sovrappongono a creare un climax ascendente di tensione e sofferenza e l’aria si fa irrespirabile finché – bang – non sentiamo lo sparo. Grazie al cielo è tutto finito. I due si allontanano nella notte, mentre alle immagini di Max sotto la doccia si sovrappongono i suoni stridenti del treno che fischia contro le rotaie.

kassoQuello che non possiamo non amare di Max è, nonostante la brutalità, la debolezza con cui si lascia trascinare, la fragilità che gli permette di distruggere la vita degli altri, è la sua contorta e disturbata tenerezza, che si esprime negli atteggiamenti di cura che avrà nei confronti del vecchio Wagner e nella ricerca della vicinanza del giovane delinquente con cui passa il suo tempo. La sofferenza con cui Max porta a termine il primo omicidio, la difficoltà con cui si riconosce, si guarda allo specchio dopo ciò che ha fatto, sebbene fugaci e velocemente sostituite dalla necessità di dominare la propria vita a scapito di quella degli altri, sono i tratti che lo rendono, ancora, umano.

Poi dei movimenti di macchina che sono la fine del mondo ci portano sul luogo di lavoro/formazione di Max: la macchina da presa segue un operaio, si affaccia a una tenda di plastica e ci si ferma per alcuni secondi, un altro operaio sposta la tenda e vediamo la schiena di Max, poi la maschera da saldatore che nasconde una smorfia di sofferenza e insofferenza, per tutti quei buchi che il ragazzo è stanco di fare. E, ancora una volta, non so chi altro avrebbe potuto far emergere l’umanità di un personaggio che, in sostanza, decide di fare l’assassino per scollarsi da una vita squallida e monotona. Mai sarei riuscita a sopportare un personaggio che così rapidamente accetta di spegnere gli altri per provare qualcosa di nuovo, se non fosse stato per Mathieu Kassovitz e la sua abbacinante espressività (ma come fa? Come accidenti fa?, mi chiedo). In pochi secondi Kassovitz dipinge un ritratto di una profondità straordinaria, soprattutto in una sequenza che segna, sebbene priva di avvenimenti rilevanti, il passaggio dalla vita monotona a quella da assassino. Max fuma sdraiato sul letto, osserva delle mosche sul soffitto mentre la televisione biascica cantilene e slogan e fa da sottofondo a ogni attimo della sua vita. La sua espressione è a metà strada tra il dolore e l’ottundimento, risvegliato solo dalle sirene della polizia che scopriamo venire dal televisore, dettaglio di cui Max stesso non si accorge, confondendo realtà e finzione. E questa confusione è portata all’estremo dalle immagini dell’omicidio registrato che si sovrappongono alla scena dell’inseguimento che la tv passa.

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Max si trasferisce a casa di Wagner, lo aiuta a commettere un altro omicidio, mirando al posto del vecchio che, destabilizzato dall’inizio di una demenza – così sembra – non riesce più a svolgere quello che stato il suo lavoro per quarant’anni. La solitudine è un tema dominante e, per combatterla, Wagner si fa portare fuori, una sera, da Max. Interno discoteca, un incubo di luci stroboscopiche e musica insopportabile, Max è seduto in un angolo con l’aria triste e persa, Wagner balla come se fosse stato caricato a molla, scosso da movimenti ripetitivi come uno zombie. Se non fosse per l’età, si confonderebbe con la folla: una marea di teste e corpi che oscillano seguendo tutti lo stesso monotono moto. Poi Wagner sta male, viene ricoverato e Max, rimasto solo per alcuni giorni, ripiomba nell’horror vacui e, immediatamente, cerca Mehdi, il ragazzino con cui era solito commettere furtarelli e gli racconta qual è il suo nuovo lavoro, gli insegna a sparare. Non ha ancora iniziato a fare l’assassino per davvero, che già ha la necessità di fare da mentore a qualcuno. Di condividere. Di riempire il vuoto.

E poi succede qualcosa di terribile: Max fallisce il primo vero lavoro che Wagner gli affida, il ragazzino spara alla vittima designata come se fosse in un videogioco, creando confusione, trascinandosi per strada come se fosse in una realtà parallela, in cui gli altri non esistono e nessun gesto ha peso. Dove tutto è merce, pubblicità, effetti sonori, pistole più o meno reali. Dove nessuno è importante. E le conseguenze di questo errore portano a un tragico risvolto: Wagner uccide Max che, però, non ha finito di raccontarci la storia che aveva iniziato.

Ora, parentesi: ci sono dei film fantastici in cui il protagonista è già morto e narra a ritroso (Sunset Boulevard di Billy Wilder) o in cui il protagonista fa una pessima fine dopo nemmeno metà film (adesso, se citare Psycho è un po’ troppo inflazionato allora prendiamo Come un tuono), ma, se non si è dei geni, ognuna di queste scelte è piuttosto rischiosa (e potenzialmente foriera di schifezze cinematografiche di quelle che vengono generate da un’idea brillante che è stata sfruttata a tal punto da aver perso il suo fascino e non voglio fare esempi perché aver fatto film del genere è una punizione già sufficiente). Mathieu Kassovitz non solo ci narra la sua storia dopo la sua morte, o meglio, nei dieci secondi del morto, ma la sua morte non è che uno snodo della vicenda e di certo non ne costituisce la fine. Non credo ci sia nulla da obiettare: quest’uomo è un genio.

Mehdi sostituisce Max con una freddezza inquietante: nel giocare ai videogame con una pistola enorme di plastica, nel far notare a Wagner che si è bagnato i pantaloni – osservazione dopo la quale il vecchio è distrutto e il giovane continua a giocare -, nello sparare ripetutamente alla donna che doveva uccidere assieme a Wagner. Dopo questo omicidio, si siede sul letto e guarda la televisione. E, ancora una volta, siamo di fronte al vuoto più totale che la realtà in cui non solo Mehdi, ma l’essere umano vive. Siamo immersi in una condizione sociale terrificante, in cui la superficie, già terribilmente vacua, nasconde un sommerso sporco, opprimente, senza apparente via d’uscita. E questa condizione ci piomba addosso con un frastuono quando Wagner, ormai depresso e alla fine della sua carriera, decide di lasciare e Mehdi lo guarda e chiede: e io cosa faccio?

Da qui un’inquadratura dall’alto ci accompagna verso la fine della giornata di Medhi: lo vediamo come se fosse in una scatola da scarpe, sdraiato davanti alla televisione, con lo sguardo perso in un punto tra sé stesso e il nulla, mentre un programma imbecille di natura violento-demente visivamente e acusticamente insostenibile (non credo esista un termine tecnico per descrivere un’atrocità del genere) riempie ogni anfratto della stanza.

Mehdi va in camera di Wagner in una sequenza da incubo, gli punta una pistola in faccia, aspetta che l’uomo apra gli occhi e spara. Ma la pistola non è carica. Se c’era un modo per uccidere davvero il signor Wagner, era questo.

La mattina dopo, nel vuoto della sua casa, Wagner si ipnotizza, dopo aver fatto colazione fissando il muro, davanti alla tv che, a un certo punto, manda le immagini di un video di sorveglianza di una scuola media, dove un ragazzo ha fatto fuoco e ha ucciso il preside del liceo, il professore di inglese e ha poi continuato a sparare sulla folla, prima di suicidarsi. Wagner fissa lo schermo e riconosce Mehdi, mentre sullo sfondo l’ombra sfocata di Max osserva l’accaduto. Si sovrappongono le parole di un esperto che commenta il massacro, poi un suono, un sibilo sovrasta le chiacchiere e, finalmente, tutto si spegne. Questo film è un incubo senza fine, come recita la canzone scelta dal regista come colonna sonora (Un cauchemar sans fin, perfetta) e finalmente, Kassovitz mette a tacere tutto e tutti, una società che con le ingiustizie socio-demografiche condanna prima di dare la possibilità di sperare, ma anche una società che, come l’opinionista alla fine del film, parlando non fa che aumentare la morbosità dello spettatore che, nutrendosi delle tragedie per riempire la propria vita, finisce per svuotarsi del tutto.