Il fantasma del palcoscenico (Phantom of the Paradise)

Brian De Palma. Il mio rapporto con Brian dura ormai da molti anni, più o meno dal liceo, quando era decisamente uno dei miei registi preferiti. Così preferito che mi era piaciuto anche Femme Fatale, mentre so che, se dovessi rivederlo ora, lo troverei discutibile. O comunque non geniale. Anche se ha certi split screen che fanno tremare le ginocchia. Il nostro rapporto non è sempre stato idilliaco. Ci sono stati momenti in cui mi sono lasciata influenzare dalla sua frivolezza, dall’amore quasi ossessivo che ha per i bei dettagli e ho fatto quello che non si dovrebbe fare mai nel campo degli affetti: l’ho paragonato ad altri. E siccome ricordo bene com’era sentirsi paragonare, dai miei, ai figli degli altri, quando ero piccola, mi sento veramente in colpa (mamma, papà, ovviamente scherzo né).(abbastanza.)

Non sei Lynch, non sei Haneke, ovviamente non sei Paul Thomas Anderson, Lars von Trier e nemmeno la mia recente ossessione, Jeff Nichols. Sei Brian de Palma, però, sei un genere a sè anche tu. E mi sono resa conto di conoscerti meglio di tanti altri registi e che, accidenti, sei un tipo profondo (oddio, con Redacted era ovvio) e lo sei anche quando sembri solo un esteta (vedi Passion, che qui in Italia non s’è visto, ma mi sento davvero di consigliarlo come esempio di cosa possa produrre l’influenza di Hitchcock a decenni di distanza e di quanto l’estetica di BDP sia riconoscibile e gradevolissima anche quando si parla di morte e manipolazioni). Ma quello che fa di De Palma uno di quelli che mi piacciono e mi intrattengono, sono sicuramente i suoi primi film, tra cui Dressed to kill, Body Double (assurdamente importante), Blow out (assurdamente ignorato), Doppia Personalità (che fa paura, ma c’è uno humor abbacinante).

Il fantasma del palcoscenico è: un musical, una storia d’amore, una tragedia, una leggenda, un horror. Ha tutto. Siamo nel 1974 e la musica ha un ruolo fondamentale. Il film si apre con uno show dei Juicy Fruits, che di succoso hanno solo quella schifezza che gli impasta i capelli e sono un residuato degli anni Cinquanta che, per ragioni che ignoro, sono ritenuti cool (nel film). A me sembrano dei pirla cretini una boy band. E, infatti, Swan, il proprietario del Paradiso, un locale, vuole riaprire con qualcosa di nuovo, con un nuovo successo. Ed ecco che un johnlennoniano Winston Leech si accosta al pianoforte e canta e suona una musica che fa accapponare la pelle da quanto è bella (anche per una che praticamente vive a Faith no more e Tom Waits e punk e le piace prettamente la roba che fa rumore di ferramenta). Winston Leech ha composto un’opera musicale ispirata al Faust. Ci siete anche voi? Avete capito anche voi che non andrà a finire per niente bene? Ottimo. Adesso che avete questa consapevolezza, potete godervi tutti i richiami a Dorian Gray, Faust, appunto, Il fantasma dell’opera, appunto. E le musiche. E la recitazione di attori semisconosciuti o che non sono nemmeno attori (Swan ha scritto tutta la colonna sonora, ma non è un attore), come il provino di Jessica Harper che interpreta Phoenix e fa questa balletto di uscita super deciso molto anni Settanta, troppo assertivo. Mi è piaciuta un sacco. Ci sono tanti dettagli, forse anche tanti cameo che non sono accreditati, ma a noi è sembrato di aver visto un Frank Zappa e un Lou Reed (uso il plurale perché di questi dettagli non me ne sono accorta solo io e non voglio prendermi meriti che non ho, tipo: boh mi pareva Lou Reed, ma chissà. Idem per il FZ: non ha mai la sicurezza necessaria per dire “accidenti era lui”).

In breve: la musica di Leech piace a Swan, ma Leech non ha l’immagine che Swan desidera, perciò questi gli ruba la musica, sceglie delle coriste (come Phoenix) di cui approfitta sessualmente (ma come fa? Ragazzi, è forse l’uomo più brutto del mondo) e affida la canzone ai Juicy Fruits (orrore).

SPOILER DEL SECOLO MA NECESSARIO

Leech viene, per causa di Swan: arrestato, imprigionato, fatto oggetto di un progetto di ricerca odontoiatrico per cui si ritrova dei denti metallici, evade, si ustiona la faccia, perde la voce, impazzisce, muore. Ma, prima di morire, fa una serie di cose indimenticabili: dedica quello che resta della sua vita a far cantare la sua musica a Phoenix (e si fa ri-fregare da Swan, perché i veri buoni sono talmente buoni che se la prendono sempre nel didietro) e, per farlo, mette una bomba nell’auto di scena dei Juicy Fruits e qui BDP splitscreenna tutto e fa un omaggione all’Infernale Quinlan e ci regala una sequenza mozzafiato ed esteticamente più potente della pubblicità del profumo firmato di turno anche se continua a essere bellissima e lussureggiante e molto modaiola (non sto mica criticando quelle di Refn o Anderson, per carità, sono davvero sbarluccicose, ma qui siamo alla poesia pura ricoperta di estetismo fondente). Ce ne sono molti di momenti, di frame, di scene in cui BDP ha curato tutto come in una pubblicità: non c’è un dettaglio fuori posto, nulla viene lasciato al caso. Se nella vita siamo un po’ tutti soffiati in giro dal caso, lo stesso che lancia Leech in una spirale di tragedie che non può che risolversi nel peggiore dei modi, De Palma fa accadere tutto questo in un mondo in cui i dettagli sono invece regolati e controllati dalla sua mano. E questo un po’ ci rassicura. Come a dire: la vita fa schifo, meno male che abbiamo de Palma.

Rivedere questo film, che avevo visto solo una volta molti anni fa e che mi era rimasto particolarmente impresso, ha innescato una cascata di emozioni, sicuramente, ma anche una serie di considerazione sull’estetica del buon Brian, che gioca a fare il fighetto cui piacciono le belle cose e, prima che tu possa dire “bello!”, ti piazza lì una o più crudeli verità sulla Vita (adesso, non posso citare Redacted, sarebbe come dire che sappiamo che Lars von Trier conosce bene la depressione da Melancholia quando poteva tranquillamente asserirlo pure da Le onde del destino, solo che è meno conclamata la cosa, ma c’è) per cui esci dal cinema con gli occhi pieni di belle cose e il cuore a pezzi.

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