Green Room

Prima di tutto: ciao Anton Yelchin 🙁

Avevo iniziato a scrivere il post su questo film un paio di settimane fa. Poi non mi convinceva ed è successa quella cosa che mi capita sempre quando cerco di sistemare qualcosa che non mi piace: aggiungo strati di inutilità che o a) non cambiano nulla, o b) peggiorano la situazione. Eppure Green Room è un film spaccatutto che ho adorato. Quindi si merita un po’ più di impegno da parte mia. Soprattutto considerando il fatto che ho passato la mia adolescenza a sguazzare nel punk (ho guardato He never died solo perché c’era Henry Rollins; com’è? Il film non va a parare granché, ma HR merita), ad ascoltare i D.O.A e i Black Flag o i Minor Threat o i Dead Kennedys e pure io ho canticchiato nazi punks fuck off quando al centro sociale sono entrati dei nazi-skin – ma, soprattutto: cosa ci facevano là?

Ora ho 30 anni e, dopo aver raggiunto quella fase della mia vita in cui dico: quanto ero superficiale, ho poi nuovamente superato questa fase idiota del considerare la propria adolescenza come superficiale (ma va?) e me la ricordo come un casino impossibile di cui però mi trascino ancora dietro fisse musicali e artistiche di vario genere. Ascolto ancora per la maggior parte band che fanno il suono di pentolame lanciato con rabbia estrema dalle finestre (Mike Patton :)) o di un mazzo di chiavi che cade nel tombino con conseguente urlo. Ancora penso che Breakfast Club sia l’unico teen drama (soft) che abbia provato quantomeno a centrare l’adolescenza. E che Peter Gabriel in uno stereo enorme per chiedere scusa sia ancora il top. Alla fine, se ci penso bene, ho in qualche modo raggiunto la maturità p.d. e poi ho più o meno consapevolmente deciso che era molto più maturo essere così come mi capitava (sembra che io stia sragionando a caso(issimo), ma sto arrivando al punto).

E questo è il primo motivo per cui Green Room funziona benissimo: non è unO young adult drama (grazie al signore), ma date le premesse dei primi dieci minuti, i personaggi che ci presenta e ci descrive sono validissimi, credibili e un po’ li vorremmo conoscere perché sembrano gli amici che abbiamo avuto/avremmo potuto avere e soprattutto sono familiari i toni delle conversazioni tra gli Ain’t Rights (la band protagonista), che sono molto simili a conversazionI che tutti – o quasi – noi abbiamo avuto a vent’anni. E lo sono piccole accortezze, come la cosa della band da isola deserta. Sono naturali, reali e sono partoriti da qualcuno che sa cosa significhi amare il punk: ce lo rivela apertamente anche la locandina, che cita fortissimo la copertina di London Calling.

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Un altro fattore e` che il regista ha uno sguardo suo e usa e padroneggia il linguaggio cinematografico regalandoci delle finezze incredibili. Un esempio. L’incipit del film ci butta in medias res: vediamo attraverso gli occhi storditi o assonnati di qualcuno, poi uno stacco. Un incidente. E poi Saulnier inizia a raccontarci cosa sia successo.

Bene, Jeremy Saulnier. Altra piccola (giuro) parentesi. Dovuta. Erano mesi che aspettavo di mettere le grinfie su Green Room; l’hype era cresciuto dopo aver visto Blue Ruin. Mi piace la sensazione di aspettare il nuovo film dei registi emergenti cui mi affeziono (Jeff Nichols, che ormai è emerso ed è cazzutissimo; Derek Cianfrance; Ti West; Adam WIngard). Jeremy Saulnier fa parte di questa cerchia. Blue Ruin era un film su una vita abbandonata in favore della disperazione e di una disperazione abbandonata in favore della vendetta, con un uso dei tempi che lasciava spazio a una gestione molto intelligente della dimensione intimistica – in realtà il film ci mostra per la maggior parte quello che succede quando viene innescata la vendetta, ma abbiamo, grazie alla sequenza iniziale, la sensazione di aver aspettato anche noi tutto quel tempo, in quella macchina distrutta –  configurando BR come un thriller dell’America brutta (ma non stile Il fuoco della vendetta, eh, per carità, una cosa molto più raffinata) e un dramma dell’uomo buono che deve sporcarsi le mani per “inserire motivazione”. Quindi era un neo noir, un po’ come Cold in July, per dire.

Green Room invece lavora su tempi compressi e il ritmo è dettato dalle interazioni tra i personaggi e, più che dall’approfondimento psicologico, dai loro scambi: come mutano, come si regolano a vicenda. GR racconta di una band hardcore, gli Ain’t Rights, che sopravvivono grazie a piccoli ingaggi, rifiutando di usare i social perché sono troppo radicati nell’hic et nunc dell’esibizione. Gli Ain’t Rights sembrano essere la poca carne rimasta attaccata allo scheletro del punk. E si ritrovano senza soldi e senza benzina per tornare a casa, unica salvezza: un ingaggio da 350 dollari in un covo di skinhead, molti dei quali di estrema destra.

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Per tutto il film Saulnier non fa che lanciarci indizi sulla personalità dei personaggi senza mai approfondirla: non serve. Se in Blue Ruin la psicologia era molto più marcata (scusate ma ho appena avuto un flash che mi rimanda a  Nebraska e mi sono commossa), qui siamo in un contesto molto più “grafico”: lo sono i personaggi e lo è anche la violenza e la sua forza politica – con un richiamino al Wes Craven dell’Ultima casa a sinistra, a mio parere. E questa è la parte più interessante del film; i momenti di vera violenza sono ben calibrati e scandiscono le sequenze cardine, ma, soprattutto, sono inattesi e sono ancora più trucidi grazie alla lunga parentesi iniziale: arrivati al covo di “nazi punks” gli Ain’t Right, in virtù del loro essere davvero hardcore, decidono di cantare “nazi punks fuck off” dei Dead Kennedys. Il momento genera una grandissima tensione: sappiamo cosa stiamo guardando e sappiamo che prima o poi capiterà qualcosa di orribile. Ma non capita immediatamente. La gente si irrita, se ne va, urla, ma non succede niente di concreto, i non-nazi restano e la band continua a suonare finché non gli viene chiesto di andarsene. Solo che uno di loro, Pat (Anton Yelchin, scomparso di recente) per errore entra in una stanza dove c’è una ragazza uccisa sul pavimento e gente nervosissima attorno. I secondi che seguono questa scoperta sono adrenalinici, così come il montaggio. Telefono. Polizia. Telefono rotto da energumeno. Panico. Barrichiamoci nella scena del crimine. Da qui iniziano le trattative con Darcy (Patrick Stewart), la persona che gestisce il “movimento”, come lui stesso lo definisce e che con modi melliflui e diplomatici cerca di stanare la band che si è barricata nella stanza, con Big Justin, un nazi-energumeno chiamato a sorvegliarli  e Amber (Imogen Poots) un’amica della ragazza morta. Tutta la serie di trattative e il clima che si crea è ben riassumibile con una frase detta da Darcy:

“You’re trapped – that’s not a threat, just a fact”

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SEGUONO SPOILER DI MODICHE DIMENSIONI

E da qui in poi da un lato emerge il lato calcolatore della “famiglia” nazi che per salvaguardare i suoi interessi burattineggia (eh, pietà)  le vite degli altri per farli morire come e quando è più comodo a loro e dall’altro la furia di sopravvivenza di chi non ha nulla da proteggere se non la propria vita. Qui esplode la violenza grafica, sapientemente riposta nelle mani del personaggi di Amber, che apre uno dei nazi con un taglierino con l’aria di chi sta provando a fare una cosa che non ha mai fatto e delle cui conseguenze e svolgimento non è ben certa, ma è terrorizzata e quindi non ci pensa troppo. Che è perfetto.

una che non sa come fare ma sa che deve

una che non sa come fare ma sa che deve

Da qui in poi è tutto un susseguirsi di suspence, panico, botte, violenza, suoni di sottofondo che non a caso sono assordanti e terribilmente ‘discomforting’ e dei personaggi che vogliamo vedere vivi e che vogliamo vedere vendicativi e cattivi. L’horror-thriller di Saulnier è anche un piccolo film di guerra, con gli eserciti contrapposti, ognuno con la sua ideologia, ma anche un personaggio che attraversa il confine ideologico quando c’è di mezzo qualcosa di molto più grosso: da una parte il confronto con l’ipocrisia della sua stessa “famiglia”, dall’altro la sopravvivenza che, come salta all’occhio nel corso del film, qui domina. La cosa ulteriormente interessante e` che nessuno vince davvero, nessuno finisce bene e tutti, in comune, adottano l’omicido e la violenza come unica strategia possibile, cosa che gia` accadeva in Blue Ruin e che SPOILERSPOILERSPOILER  portava a un finale estremamente doloroso (ma tanto) e doloroso a vari livelli di lettura.

guerra

guerra

Noi stiamo dalla parte degli Ain’t Rights perché hanno ragione, non si sono macchiati di nessun crimine orribile, non sono dei nazi, ci stanno simpatici, ci piace il punk e gli altri sono orripilanti. Vero. Ma Saulnier va più a fondo di così: i nazi non fanno una mossa che non sia meditata, che non sia ingannevole, che non sia specchio di interessi nascosti sordidi e, soprattutto, vogliono protrarre i loro inganni (a più livello) fino al limite. Il modo di agire di Darcy e` estremamente politico. Per convincere i suoi a uccidere senza porre domande fa leva sul concetto di famiglia. Definisce il loro non un `partito` ma un movimento. Io non so se sia la paranoia a guidarmi, ma trovo la voce di Saulnier molto critica verso un certo tipo di politica contemporanea e verso il modo in cui questa fa leva su quanto di piu` viscerale e vicino alla gente per i suoi comodi. Il riferimento a Trump io ce lo vedo eccome.

Gli Ain’t Rights e Amber no: vogliono vivere e lo vogliono fare senza abbassare la testa di fronte ai nazi. E sono sinceri fin dall’inizio nel dire e nel fare qualunque cosa possa tirarli fuori dalla loro situazione. E, in questo senso, ho adorato ogni secondo del finale, soprattutto le battute sul “creare una nuova scena del crimine” dove c’è l’esplosione della vendetta che è una di quelle così catartiche (vedi Tarantino) che senti tutto il male e l’amarezza e vedi alla luce del sole il risultato della cascata di violenza che si e` innescata ed e` diventata immediatamente inarrestabile e, allo stesso tempo, vedi degli esseri umani che lottano per la loro vita con una forza incredibile e quello con cui ci confrontiamo e` un finale che non e` positivo, ma che all’interno della logica horror si puo` considerare come un happy ending. Eppure e` amarissimo.

Green Room e` un film con qualche imperfezione e delle limitazioni (spazio-tempo) intrinseche alla storia, ma sono dettagli tralasciabili perche`, alla fine, fa il suo sporco lavoro e lo fa benissimo. Soprattutto mi rompe eccessivamente le palle mi infastidisce blandamente il fatto che i personaggi vengano criticati in quanto stigmatizzati: bene, non stiamo assistendo a un film di Zulawski (<3). E` un thriller. Ed e` comunque un film d’autore. I personaggi SONO stigmatizzati, ma non e` difficile intuire dietro a molti di loro una storia, un perche`. Soprattutto dietro al personaggio di Macon Blair. Ho avuto l’impressione che quei personaggi non fossero solo caratteri interpretati da bravi attori, ma che fossero personaggi che nella testa di Saulnier esistono e che hanno un passato e che tutti quanti immaginavano e, sulla scena, lo sapevano e solo a noi non deve importare, perche` quello che Green Room e` pensato per essere e` un’esperienza cinematografica, non un compitino thriller (comunque ben riuscito perche` la tensione non cala mai). Inoltre, come scrivevo qualche riga fa, il non vedersi se non per difendersi o attaccare mette i personaggi in una dimensione primitiva, di sopravvivenza e, a un certo punto, non conta piu` se sei uno skinhead di estrema destra di estrema sinistra o se sei un punk o se sei uno che cerca la sua identit’, quello che c’e` di mezzo e` vivere o morire. E nessuna definizione conta piu`. Grazie a questa dimensione cosi` primordiale ma con quell’estetica meravigliosa e cupissima del verde che rende tutto cosi` militaresco e putrido e spaventoso il film funziona benissimo e regge fino alla fine. E` merito dell’atmosfera (che a sua volta e` merito della tecnica).

Come dice Saulnier:

“With Green Room, I wanted to make a new 1980s genre movie, a movie that gave me that feeling, instead of a movie that was referential to the era. Green Room is just also alive with the energy I had when I was 19. It was very much the physical expression of being part of the hardcore and punk scene. This movie at least tries to harness the energy and tension and aggression of the music itself.”

E infatti in questo film c’e` un’energia vera, per cui finisci che sei pronto a saltare su un minivan tutto scassato e accendere lo stereo al massimo e cantare a squarciagola quel che vuoi uberalles. La caratteristica che rende Green Room vivo e` la tensione che ti attanaglia per tutto il film, con queste macchine da presa che si muovono dappertutto come se giocassero a rincorrersi, l’immersione nella lotta per la sopravvivenza, l’uguaglianza forzata di gente totalmente diversa nel momento in cui la violenza diventa l’unico mezzo di comunicazione; e` vivo e agro come lo scambio di battute di chiusura tra Imogen “Madonna and Slayer” Poots e Anton Yelchin, che danno un calcio in culo assolutamente hardcore a ogni tentativo di conclusione morale possibile e lasciano spazio ai titoli di coda spaccatutto.