Frankenweenie.

Per Tim Burton, artista, regista, creatore di sogni, è fondamentale rispettare il dress code: non posso andare a vedere Frankenweenie, che ho atteso così a lungo di vedere in versione originale sottotitolata, senza essere coerente con lo scenario. Perciò abitino spettrale, calze viola e borsa a forma di casetta di marzapane alla mano mi incammino, nell’ancora fredda sera – quasi più tagliente rispetto a febbraio! -, verso il cinema.

La trama è una sovrapposizione tra il Frankenstein di Mary Shelley – un capolavoro dalla genesi così casuale e onirica che crederlo è difficile, Charlie: anche i cani vanno in paradiso e Jimmy Neutron e, quello che ne esce, filtrato attraverso la mente di Tim Burton, è uno spettacolo.

L’incipit richiama l’attenzione di tutti coloro che amano il cinema, la creatività, la vita: un film nel film, un’animazione nell’animazione realizzata da un ragazzino i cui genitori sono preoccupati perché è molto, troppo solo. Questa storia l’ho già sentita e l’ho già vissuta e molti di noi si saranno ritrovati in questa burtoniana presentazione di Victor e, credo, anche di sé stesso.  Dopo pochi minuti mi ritrovo a ridere a crepapelle – per restare in tema – quando Mr. Whiskers (Signor Baffino), il gatto premonitore, fa la sua comparsa in scena. Più lo guardo, più mi ricorda Peter Lorre che, furtivo, si aggira per la cittadina di M. la modalità attraverso la quale il peloso gatto esprime il suo dono è geniale, i personaggi della scuola ricordano affettuosamente altri burtoneschi elementi dei precedenti film e, dopo appena quindici minuti, siamo già nella mente di Tim Burton. E non voglio uscirne mai più.

La storia è dolcissima, tenera ed è fin troppo facile identificarsi: tutti noi amiamo o abbiamo amato un animale domestico e abbiamo tremato all’idea di poterlo perdere. E quanti di noi, bambini e non, avrebbero voluto poter riportare i propri pelosi – o meno – amici alla vita? Il creativo regista dà corpo a questo desiderio in un modo ben più idilliaco di quanto non abbia fatto, anni fa, Stephen King con Pet Semetery. Ma è proprio per questo che adoro Tim Burton: a volte è bello potersi limitare alla dimensione fantasiosa e onirica in cui tutti dovremmo passare un po’ più di tempo.

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La bellezza di questo film, oltre che nello strabiliante impatto visivo che i pupazzi – con l’innegabile fascino alla tragic toys – hanno, sta nei dettagli: qualunque cosa accada è studiata alla perfezione. Lo scodinzolio che fa staccare la coda suturata di Sparky, il contatto elettrificato tra il suo naso e quello di Persefone che trasforma la cagnolina nella versione canina della sposa di Frankenstein e ogni singolo momento dell’inseguimento di Mr. Whiskers da parte di Sparky sono solo alcuni dei perfetti particolari che rendono il film scorrevole, divertente ed estremamente brillante.

Quello che si intreccia alla lugubre e spettrale trama, è anche il tema della paura della diversità che, come in Frankenstein si estrinseca soprattutto nel tragico finale, qui inizia già a delinearsi con la presentazione di alcuni personaggi secondari, primo tra tutti l’insegnante di scienze, Mr. Rykrusky. Se già il protagonistica, Victor e il compagno di classe Edgar – degno successore di Igor del capolavoro di Mel Brooks – rappresentano due tipologie ben distinte di outsider, il portavoce dell’alterità è l’illuminato insegnante dalle scarse abilità comunicative e sociale, allontanato proprio perché il suo scopo è quello di insegnare ai ragazzi a porre e persi domande. Domande da cui, chi non sa rispondere, è terrorizzato. In questa sequenza, che è una dichiarazione di amore – che accolgo a braccia aperte – per la scienza, risiede tutta la bellezza e l’importanza della curiosità per la vita.

 FrankenweenieLa svolta che porta verso l’emozionante finale si ha quando alcuni compagni di Victor, animati dalla brama di vincere – vincere, vincere! – il concorso di scienze, ormai regolamentato dall’incompetente insegnante di ginnastica, tentano di riportare in vita i propri animali defunti e non solo, creando terribili mostri, il più spaventoso dei quali – il vero mostro finale – è una chimera che viene, per errore, a crearsi, tra Mr. Whiskers e un pipistrello.

Qui i riferimenti ai film culto del genere horror e fantascienza dei decenni passati sono molti e divertono ancora di più lo spettatore creando un’atmosfera amichevole e familiare, come se Tim Burton fosse lì a dirmi: piacciono anche a te i Gremlins? Perché le scimmiette di mare si trasformano in creature ingorde e sregolate proprio come i mostriciattoli del film anni Ottanta, terribili quando emergono dal water del bagno pubblico in cui si rifugia il sindaco, proprio come accadeva in una celebre scena di Jurassic Park. Un’altra fenomenale scena è quella in cui vengono assaliti i genitori di Victor, barricati in una cabina telefonica claustrofobica come quella de Gli uccelli di Hitchcock, mentre una tartaruga godzilliana – l’ironicamente redivivo cucciolo del ragazzino giapponese! – si aggira seminando il terrore in tutta New Holland. I riferimenti cinematografici sono davvero troppi ed è talmente divertente scovarli che elencarli uno a uno sarebbe pedante e priverebbe il film di una parte della sua magia (divertitevi!).

Il finale tutto suspence, dramma, eroismo è mozzafiato e, soprattutto, si colloca all’interno di una dimensione dove la meraviglia ha la meglio sulla e morte e sul mondo adulto. Con l’elettrico e adorabile “bacio” che chiude il film Tim Burton ci dice: sognare è bellissimo.

3 pensieri su “Frankenweenie.

  1. il film è bello e ben fatto, ma a mio avviso manca di mordente, e lo dico dopo aver visto il cortometraggio da cui è tratto, che riesce a prender meglio lo spettatore e comunicare di più. Rimane comunque un piacevolissimo passatempo, e se tutti guardassero, e capissero, Burton forse vivremmo in un mondo un pizzico migliore…

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