Darling (poco soldi, molto entusiasmo)

Capito sopra a un post di fangoria in cui parlano del nuovo film di Mickey Keating, una cosa sugli psicopatici. Vuoto iniziale. Chi accidenti è Mickey Keating? Non quello di Cherry Tree, quello si chiama David Keating. Certo che se il cognome li unisce in termini filmici, allora vorrà dire che anche Mickey Keating riserva delle sorprese, orribili ma anche belle (Cherry Tree non la considero una bella sorpresa, per intenderci).

Mickey Keating, secondo la pagina di imdb, ha fatto Pod, un horror sci-fi che all’utente medio di imdb non solo non è piaciuto, ma pare essere la prova che non tutti dovrebbero essere armati di macchina da presa. Oddio. Però poi ricordo di aver letto da qualche parte che Darling non era male. Pagina di Darling, sguardo fugace al metascore (eh, lo so, non ci posso fare niente, il mio intriseco snobismo lo sto soffocando, ma sul metascore non sono ancora riuscita a darmi un contegno) e sono interessata. Vai col trailer: Colazione da Tiffany meets Omen meets Repulsion. Venduto.

Quindi, Darling: ho paura dal minuto due, senza che in realtà accadano grandi drammi. Giovane fanciulla arriva a Manhattan nella casa di cui si dovrà prendere cura per lavoro. Si dice che la casa sia infestata e, come si lascia non troppo candidamente sfuggire la proprietaria, c’è stato quel piccolo incidente. La precedente governante, la precedente “lei”, si è buttata dal balcone – non vi ricorda L’inquilino del terzo piano?

A me scatta subito questo stridente campanello: http://giphy.com/gifs/halloween-movie-the-omen-SzhMdTu31n8c, ma è solo uno dei molti accenni al cinema di genere e non che verranno fatti nel corso del film e, se ci si presta una buona dose di attenzioni e cure e affetto, alla visione, Darling è un horror semplice, elegante, con tutto al posto giusto. Se fosse un gioiello, sarebbe un paio di orecchini di perla. Merito anche della fotografia di Mac Fisken, con un bianco e nero che maschera bene le esigenze di un budget ridotto all’osso.

Perle. per l'appunto )e che bella frangetta!)

Perle. per l’appunto )e che bella frangetta!)

Dal minuto due, dicevo, ci aggrappiamo al partner, piuttosto che alla coperta, al peluche, al cuscino di forma più o meno regolare e iniziamo a sentirci male. Un po’ perché abbiamo da subito l’impressione che questa cartolinesca Manhattan (che richiama un po’ Woody Allen, anche per la struttura in capitoli con cui verrà sviluppato il film) di cui le vedute iniziali ci mostrano lo skyline sia tetra, opprimente, cupa. Un po’ perché anche la nostra protagonista, Darling, non sembra eccessivamente a registro. Quando le parlano guarda di lato, con un fare che forse tradisce un passato da giovane campagnola approdata in città stile Jody Foster in Silence of the Lambs, ma che a noi aficionadi dell’horror fa tanto ragazza interrotta, che con quella frangia laterale che ricorda tanto quella della Deneuve in Repulsion non me la conta giusta.

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I dubbi crescono, quando Darling, esplorando la casa, trova una collana con un crocefisso capovolto e decide di portarla sempre con se`. Ma anche Darling che sale le scale trascinando una piccola valigia che sembra pesare tantissimo (ma perché?), ripresa dall’altro, come la macchina di Jack Torrance e famiglia mentre si dirigono all’Overlook Hotel. Sento puzza di pazzia.  Cosa che viene fomentata con la miriade di primi piani alla protagonista, come (soprattutto) il primo piano del finale, richiamo fortissimo Psycho, con quel mezzo sorriso che non serve nemmeno la mosca a farci suona il Perkins-campanello.

Sono passati dieci minuti e Darling va a fare la spesa. Le cade il crocifisso satanico (c’è un nome tecnico per questo affare?) e un tizio glielo raccoglie. Montaggio rapidissimo con urla e violenza. Malessere. Questo tipo di montaggio si ripete ciclicamente durante tutto il film, assieme a delle sequenze di suoni acuto-botto-momenti atonali che sono come delle punture uditive – non so se mi spiego. Una tappezzeria sonora che tappezzeria non è. Ora, di sound design non ne so un accidenti ma ora vorrei saperne qualcosa, perché sicuramente buona parte dell’angoscia che il film trasmette deriva dal montaggio e dal montaggio sonoro.

Bene, capiamo presto che Darling non sta bene e che ha iniziato a peggiorare da quando è entrata ad abitare in quella casa, con tanto di porte che sbattono la notte e una stanza misteriosa con un corridoio lunghissimo che neanche la galleria del Bernini. Il problema è che noi siamo con lei ogni istante: il film segue le sue azioni e il cambiamento repentino dei suoi stati mentali. Vediamo ciò che lei vede, sentiamo ciò che lei sente grazie ai velocissimi tagli nel montaggio in cui vengono interposti frame violentissimi. E, quando Darling compie l’inevitabile, noi siamo con lei. La temiamo, ma siamo lì che puliamo con lei, sempre in tenuta impeccabile, minuta e silenziosa, che con grazia ripulisce il suo crimine, oscillando tra la disperazione, la fermezza e l’assenza. Il merito è di Lauren Ashley Carter nel farci percepire la follia, la rabbia, ma anche la sofferenza, la confusione di Darling. A me ha fatto pensare un pochino anche ad Angst, dove il delirio e la crudeltà e la confusione totale si mischiano a farti capire che quello che hai di fronte è uno squilibrato.

Il film è pieno di sovrastrutture (come mi fa notare Filmorri, lei che si contorce e piange speculare al cesso – ora che ci penso: avete presente il trittico di Bacon  col cesso? Bellissimo, non so se c’entri qualcosa, ma è uno dei miei dipinti preferiti), sicuramente qui l’estetica, nella fortissima modernità del linguaggio che viene utilizzato (con moderno mi riferisco a quello che succede nei film della nouvelle vague per cui un frame spesso contiene più della somma delle sue parti), è più consistente della storia che viene raccontata. In questo film la forma è la sostanza, al di là di qualunque hipsterismo, Darling è un film di pancia di uno che ama l’horror e di uno che ama il cinema. E io appoggio e mi auguro che di film così ne vedremo sempre di più.